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Disabilità e didattica a distanza: la pandemia rivela e conferma criticità nell’inclusione

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

a cura di Rosa Bellacicco e Dario Ianes - Università di Bolzano

La didattica a distanza è stata, in quasi tutti i Paesi, la prima risposta implementata per tentare di garantire la continuità educativa. Anche se la digitalizzazione dell’istruzione è un tema caldo in diverse discipline già da decenni, la chiusura prolungata delle scuole e il repentino passaggio agli ambienti online ha posto nuove sfide a tutti i soggetti coinvolti (insegnanti/dirigenti, alunni, genitori).

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Numerosi sono gli aspetti positivi legati al passaggio alla modalità online. Soprattutto a lungo termine, si immagina che l’evoluzione delle tecnologie/piattaforme digitali e delle competenze connesse al loro uso possano contrastare i nodi problematici emersi nel primo periodo della sua attivazione, quando il traghettamento agli ambienti digitali è stato poco preparato. Dall’altro lato, prospettive più critiche mettono in luce alcune difficoltà, concentrate soprattutto nel gap di accesso ai device e alle risorse digitali e nelle modeste competenze tecnologiche espresse da insegnanti, studenti e genitori.
Un recente rapporto dell’ISTAT evoca il fatto che circa il 34% delle famiglie italiane non possiede a casa né computer né tablet. Inoltre, solo 3 ragazzi su 10 dichiarano competenze digitali elevate.
Non stupisce che anche le competenze digitali degli insegnanti risultino limitate. I dati della rilevazione PISA (dati riferiti al 2018) mettono in luce che in media, con riferimento a tutti i 36 Paesi indagati, solo il 60% dei quindicenni è iscritto a scuole i cui docenti possiedono le competenze tecniche e pedagogiche necessarie per integrare i dispositivi digitali nell’istruzione. In Italia questa quota scende al 50%, con un altro Rapporto dell’ISTAT che conferma la mancanza di formazione in tecnologie educative anche tra gli insegnanti di sostegno.

Le criticità fin qui messe in luce possono impattare in modo peculiare sugli alunni con bisogni educativi speciali (BES) e, in particolare, con disabilità, per i quali può esser necessario un lavoro educativo e didattico individualizzato. Più in generale, la letteratura suggerisce che, nella fase acuta della pandemia, la simultanea perdita delle routine scolastiche e dei supporti e servizi esterni, la riorganizzazione della vita familiare e la mancanza di socializzazione possono aver causato alti livelli di stress in questi alunni, persistenti in taluni casi nel periodo successivo al lockdown, se accompagnati da difficoltà economiche e psicologiche dei genitori.
Lo studio della SIRD (Società Italiana della Ricerca Didattica) ha messo in luce che, durante la didattica a distanza, per il 55% degli alunni con disabilità è stato necessario un lavoro di rimodulazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI). Nella maggior parte dei casi è stato, inoltre, indispensabile l’uso di materiale specifico e di modalità peculiari di contatto tra alunno e docente, nonché un forte coinvolgimento delle famiglie.

Gli ambienti digitali potrebbero offrire una cornice in cui sperimentare con successo il superamento della lezione frontale e alimentare processi di acquisizione di conoscenze più aperti alle scelte e alle iniziative degli alunni — a seconda della padronanza dei processi cognitivi, degli interessi e delle inclinazioni personali — e al dialogo e al confronto tra essi, magari in piccoli gruppi. Tuttavia, da un ulteriore sguardo alla riflessione italiana rivolta a tutta la popolazione studentesca, non sembra si sia verificata un’evoluzione delle pratiche di insegnamento in questa direzione durante il passaggio agli ambienti digitali; o, nel migliore dei casi, ciò è avvenuto a singhiozzo e in modo molto irregolare. Durante la didattica a distanza, si è assistito ad una certa continuità nell’utilizzo di pratiche didattiche tradizionali, come la trasmissione ragionata di materiali e spiegazioni in presenza e le attività più frequenti dalla scuola primaria in su sono state le lezioni in videoconferenza e l’assegnazione di risorse per lo studio ed esercizi.

In seguito alla ricerca compiuta da chi scrive è risultato che solo poco meno della metà degli studenti con disabilità presi in esame risulta pienamente incluso nelle forme di didattica a distanza attivate (44%) e un altro 20% ha seguito solo percorsi individualizzati (19%). Più di 1 studente su 3 è, invece, totalmente escluso, perché la didattica a distanza è risultata inefficace (26%) o perché, in base agli obiettivi del PEI, non sono stati ipotizzabili interventi didattici non in presenza (10%).

I dati restituiti dall’ampia rilevazione effettuata — che rappresenta il primo e, al momento, unico studio italiano condotto guardando nello specifico agli studenti con disabilità durante il lockdown — delineano uno scenario piuttosto preoccupante. Se, da un lato, sembra che il nostro sistema scolastico sia stato «sufficientemente pronto» a muoversi verso la didattica a distanza — attivata piuttosto capillarmente in tutte le classi indagate, non altrettanto si può dire della sua capacità di continuare a rendere possibili processi inclusivi. Esso, infatti, non è riuscito a garantire, per oltre 1 studente su 3, neanche l’«inserimento» nella didattica a distanza e, per un altro 20%, ha assicurato solo una parziale inclusione.

Grazie alle risposte del questionario, possiamo provare a comprendere perché questi alunni sono stati esclusi. Il primo fattore rimanda a difficoltà di adattamento del PEI e alla non efficacia della modalità on line. Pur immaginando che si alluda ad alunni con difficoltà particolarmente severe, si tratta di capire se i loro percorsi di apprendimento non potessero essere in qualche modo armonizzati nel gruppo classe, anche a distanza. Ricordiamo, al proposito, che la riflessione pedagogica italiana ha ribadito, laddove l’adattamento non è proprio possibile, l’importanza di creare occasioni per far partecipare gli alunni a dei momenti di elaborazione in modo che sperimentino, anche se «soltanto» da spettatori, la cultura del compito (partecipazione agli elementi di socializzazione della classe; condivisione di momenti formali e informali della quotidianità didattica, etc.). Questa dimensione non sembra essere stata valorizzata in alcun modo dai rispondenti al questionario.
Un altro 20% degli alunni descritti risulta poi solo parzialmente incluso, in quanto ha partecipato a percorsi individualizzati/individuali, probabilmente svolti in un rapporto esclusivo con l’insegnante di sostegno. In questo caso, appare chiaro che l’equilibrio tra apprendimento e partecipazione al gruppo classe — entrambi fattori che sappiamo essere irrinunciabili per una buona didattica inclusiva — non è stato mantenuto, a discapito della seconda.
Pur riconoscendo, che l’apprendimento in contesti separati è purtroppo una forma di gestione della classe ben consolidata nella quotidianità scolastica, durante la didattica a distanza l’investimento sulla condivisione di una progettualità comune con il gruppo classe tuttavia avrebbe dovuto essere più intenso, a fronte dell’isolamento sociale già patito dagli individui con disabilità per il lockdown. Nel complesso, alla base delle motivazioni associate all’esclusione di tali studenti, si legge dunque una chiara impronta pedagogica, con alcuni processi di insegnamento- apprendimento, che già caratterizzavano il nostro sistema educativo, esacerbati dalla didattica a distanza.

Completano il quadro i dati sui materiali didattici. In circa un quinto dei casi, questi ultimi non sono stati proprio offerti, né con né senza adattamenti.

Da ultimo, la questione della collaborazione e, quindi, di come si è sviluppata la rete dei rapporti durante la didattica a distanza.
Su questa scia, anche la collaborazione con i genitori emerge come positiva. La necessità di costruire atteggiamenti di corresponsabilità tra famiglie e scuola è stata messa in rilievo, da tempo, nella pedagogia italiana. Tuttavia, nella situazione del lockdown, questa dimensione poteva risultare critica e, al contempo, ancor più imprescindibile, in quanto direttamente proporzionale al successo dei percorsi di apprendimento degli alunni. La famiglia si è trovata, infatti, a rivestire un doppio ruolo, dovendo accostarsi anche a quello di stampo più pedagogico. Alla luce dei nostri dati, l’idea fondamentale che ne deriva è che gli strumenti della didattica a distanza potrebbero, anche in futuro, essere utili per coinvolgere maggiormente i genitori nella definizione della progettualità relativa al percorso del figlio, oltre e al di là dei meri adempimenti burocratici.

Infine, il ruolo rivestito dai compagni. Il quadro che affiora è la spia di una profonda problematicità che connota le relazioni con i pari: essi risultano scarsamente coinvolti nei percorsi degli alunni con disabilità, a conferma che il maggior prezzo pagato da questi ultimi è stato sul fronte della partecipazione.
A questo proposito si deve ricordare che, nella nostra survey, è stato rilevato anche un declino del benessere sociale degli studenti con disabilità. I dati evidenziano infatti che oltre la metà dei docenti ha notato un peggioramento in termini comportamentali, ma soprattutto nelle autonomie, nell’apprendimento e nella comunicazione. La loro scarsa partecipazione al gruppo classe, durante il lockdown, potrebbe aver contribuito a questa regressione.
Nel tentativo di riassumere le ragioni sottostanti l’emergere di una limitata collaborazione con i compagni, una spiegazione naif condurrebbe alla deresponsabilizzazione di questi ultimi; tuttavia, è facile anche immaginare che essi abbiano ricevuto dai docenti poche opportunità didattiche per condividere il proprio percorso con quello dei pari con disabilità. Le indagini italiane condotte sulle metodologie didattiche nel periodo del lockdown (e non solo) sono di nuovo di aiuto. Esse ci confermano, infatti, che i docenti hanno raramente modificato i loro approcci metodologici e didattici e una quota particolarmente elevata ha utilizzato, anche durante la didattica a distanza, uno stile tradizionale e trasmissivo, sfruttando poco le potenzialità offerte dalle metodologie attive, come l’apprendimento cooperativo, il tutoring o le didattiche laboratoriali. Questi ultimi approcci avrebbero probabilmente creato uno spazio maggiore per la partecipazione degli alunni con disabilità alle attività di apprendimento e di socializzazione.

In questa cornice e a fronte del fatto che, in un Paese con una esperienza inclusiva decennale come il nostro, il lockdown ha messo in discussione perfino l’accesso degli studenti con disabilità alla didattica ordinaria, interpretazioni più pessimistiche e sfidanti si arrenderebbero agli «inclusio-scettici». Come è noto, secondo tali autori, i processi inclusivi sono difficilmente realizzabili in pratica e funzionano fino a quando non interviene una variabile che introduce una situazione di ingestibile squilibrio nel contesto didattico, quale ad esempio la presenza di studenti con gravi problemi del comportamento o, nel nostro caso, il passaggio alla didattica a distanza. Più in linea con gli «inclusio-costruttori» noi riteniamo che sia più utile, anche basandosi sui risultati di questa esperienza, continuare a comprendere le fragilità del nostro sistema educativo e indicare, con sempre più chiarezza, i fattori determinanti per la crescita di esperienze di inclusione. Dai nostri dati si evince che possiamo contare, ad esempio, sulla collaborazione con i genitori. D’altro canto, oltre alle difficoltà di tipo tecnologico, sono indubbiamente i meccanismi di delega e di scarsa valorizzazione di alcuni attori (es. i compagni) e, più in generale, la didattica ordinaria, rigida e standardizzata, i fattori negativi che hanno prodotto le dinamiche di esclusione e microesclusione evidenziate. Questo periodo pandemico senza precedenti ha confermato e ampliato le ricadute negative connesse a questi processi, da tempo rilevati da chi ha cuore l’inclusione nel nostro Paese, suggerendoci che non c’è più tempo per aspettare di cambiarli.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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