I nomi del dolore

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Diagnosi: parola di origine greca, utilizzata nella medicina antica con il significato di “riconoscimento”. Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia

Cosa vuol dire per una persona ricevere una diagnosi? Sentirsi definito in base alla sua sofferenza, al nome del suo disturbo psichico – border, bipolare, schizofrenico?

Alcuni redattori e redattrici di Psicoradio riflettono sulla diagnosi dal punto di vista di chi le riceve e ci convive.

G. Io ho avuto varie diagnosi nella mia carriera psichiatrica, perdonatemi il termine, che a me è sempre molto caro. Ho iniziato circa 15 anni fa con la diagnosi di “disturbo bipolare dell’umore”, poi cambiando le cose e le situazioni sono arrivato ad un “disturbo della personalità” ed infine nell’ultimo ricovero i medici hanno parlato di “disturbo schizoaffettivo”.

Detta così dovrei assolutamente preoccuparmi, dovrei anche piangermi addosso e dire” Oh Dio cos’ho, cos’ho”. Però a essere sincero non voglio preoccuparmi più di tanto della diagnosi. Perché comunque, se la diagnosi cambia, vuol dire che anch’io sto cambiando. E teniamo in conto che la speranza di un paziente psichiatrico, quando si parla di cambiamento, è sempre quella di un’evoluzione positiva, non di una involuzione.

E. Dovrei sintetizzare 30 anni di diagnosi e non è tanto facile. Le mie diagnosi sono sempre cambiate. Non so se è perché ho visto medici diversi o se è perché io mi sono evoluta nei miei modi di vivere le cose. Comunque in questi 30 anni ho avuto momenti in cui nello stesso momento due medici diversi hanno fatto due diagnosi diverse!

Secondo me non si può negare che quando entri nel giro della psichiatria la diagnosi è in qualche modo importante. Nel momento in cui entri nel percorso psichiatrico ti rendi conto che sei uscito dalla “normalità”. E allora, se io non sono normale, che cosa sono?

C’è un altro problema, che riguarda non tanto se dire o non dire la diagnosi al paziente, ma come comunicare ad un paziente la sua diagnosi. Secondo me, a me è stata comunicata male, comunicata dopo anni e con una tale segretezza che quando mi è stata detta io ho avuto paura.

Perché tanto senso di segretezza mi dava l’idea che fosse proprio qualcosa di negativo, di spaventoso, ed io da questa paura della mia diagnosi non sono ancora uscita.

Penso che quando ti viene fatta una diagnosi il problema sia come accettarla, come accettare questa parte di sé che non sta bene. Poi nel tempo il problema diventa come uscire dalla diagnosi. Io ho avuto dei momenti in cui stavo molto male, e sono state anche, tra virgolette ma non tanto, “istituzionalizzata”, perché per anni ho fatto parte di un centro diurno, e questo voleva dire stare con persone che a volte avevano comportamenti e sintomatologie anche molto più vistosi della mia. Tutto ciò ha fatto sì che spesso, quando dovevo presentarmi a qualcuno, d’istinto mi venisse da dire “sono una paziente psichiatrica”. In realtà non l’ho mai fatto perché capivo che era inadeguato, però l’impulso l’ho avuto tante volte. Oppure la tentazione era di presentarmi in base ai miei sintomi; dire: “ io sono una autolesionista”. Questo la dice lunga su cosa succede quando una persona viene vista troppo attraverso i suoi intomi e meno rispetto alla parte sana che ha.

M. Ricordo che al mio primo ricovero volontario - allora abusavo di alcool -  mi fu comunicata una “non diagnosi”, nel senso che mi fu detto: “ Lei sta nascondendosi dai suoi problemi”, e basta.

Dopo due giorni che ero stato dimesso dal ricovero ho avuto un episodio grave di psicosi e compagnia varia, e di conseguenza ho avuto anche il piacere che la psichiatra mi chiedesse scusa dicendomi:  “Guardi, mi dispiace, ma non avevo capito niente.” Questo vuol dire che le diagnosi cambiano, cambiano… ma io voglio spezzare una lancia a favore dei medici, perché fino a quando noi stessi non siamo in grado di dire esattamente le cose come stanno, difficilmente loro possono capire fino in fondo quale è il problema. Io per esempio sono passato da una diagnosi di “alcolista” a “post alcolista” perché non ero più alcolista ma bevevo solo per auto cura, poi sono passato a  “disturbo della personalità”, poi “disturbo post traumatico da eventi violenti con conseguente disturbo della personalità”, e lì mi sono fermato.

Il discorso cambia, ma perché sono cambiato io, perché dopo due anni di sofferenza, dopo due anni in cui le   cure non contavano nulla, ho cominciato a dire le cose esattamente come erano, perché io prima le tenevo nascoste, e nel momento in cui ho cominciato a parlare hanno azzeccato immediatamente la cura. Questo è un punto fondamentale: se uno ha un problema non deve avere paura di dirlo.  Invece tante volte noto che c’è proprio da parte nostra, di noi “cittadini seguito da servizi di salute mentale”, una ritrosia ad ammettere quello che si ha. Si tende troppo a nascondersi, o a far finta che gli altri si sbaglino. Certo, gli altri possono sbagliare, ma ci possiamo sbagliare anche noi su noi stessi.

Rispetto alla diagnosi voglio precisare una cosa. Io non voglio più sapere cosa vuol dire la mia patologia, non voglio sapere esattamente nulla. Perché secondo me devo essere io, M., che piano piano devo risolvere i miei problemi e riuscire a venirne fuori. Con l’aiuto del medico, ma di un solo medico, non di tanti, perché se no si fa una grande confusione. Ecco perché non voglio conoscere la mia diagnosi.

A. Fino a dieci anni la mia diagnosi era “disturbo bipolare dell’umore”. In parole povere,  significa che vivi alla giornata, se qualcuno ti fa un bel complimento voli, se qualcuno ti fa un’offesa o dice qualcosa di forte ti siedi per terra e ti butti giù. La spiegazione tecnica sarebbe troppo complicata. Da allora, da quando mi è stata detta dal mio primo psichiatra, adesso che ho una terapia più pesante, non ho voluto più sapere la diagnosi, so che prendo dei neurolettici, ne prendo più di uno, so queste cose, il medico mi ha detto di stare tranquillo che non è nulla di grave, ma io non gli ho fatto nessuna domanda su che diagnosi ho io. Evito di farla perché se no sarei in un baratro, perché mi butto giù appena sento le sue parole.

A. Molti miei “colleghi pazienti” dicono che la diagnosi di un paziente cambia col tempo a seconda di che medico hai e che sotto a che scuola psicologica o psichiatrica ti capita di farti curare. Io ad esempio ho visto la mia diagnosi cambiare da fobico, poi fobico con un po’ di psicosi, e già mi sono preoccupato perché la psicosi, accidenti! E poi addirittura sono andato a leggere la diagnosi che ha fatto il medico di Villa Baruzziana, dove qualche estate fa sono stato un mese e qualche giorno, e lui ha scritto addirittura che io sono uno psicotico schizofrenico. Quando l’ho letta mi sono preso paura, perché so che con la schizofrenia non scherza.

Però, poi insomma, come ha detto poco fa G., non è che bisogna spaventarsi troppo dinnanzi ad una diagnosi, perché è un po’ come leggere gli effetti collaterali sul bugiardino del farmaco. Il messaggio che vorrei dare, è che non c’è da preoccuparsi troppo delle diagnosi, proprio perché cambiano nel tempo, e quindi possono anche diventare da più brutte a più belle! Speriamo, almeno.



 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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