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Di che diagnosi sei? Dallo shock iniziale alla cura nella voce di utenti, famiglie, psichiatri

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Una tre giorni all’interno dei Recovery College promossa dall’associazione L’Arco ha consentito di dare voce a professionisti, familiari e utenti per parlare del tema della diagnosi. Una pluralità che ha condotto a numerosi spunti interessanti e considerazioni a volte lapidarie.

FotoDiagnosi
Il titolo degli incontri “E tu di che diagnosi sei?” è frutto di un’idea nata da un gruppo di utenti dell’Arco: un piccolo gruppo di quattro persone che ha messo a punto l’intero formato. Un primo giorno di esperienze e gruppi di discussione preceduti dal racconto di una paziente e di una familiare da un punto di vista soggettivo hanno messo in luce le conseguenze della diagnosi. La diagnosi psichiatrica è stata riconosciuta come uno shock iniziale che si trasforma in un percorso di cura. I comportamenti deliranti sono l’elemento peggiore perché creano paure nell’altro e disagi nei genitori. D’altra parte per chi soffre di una patologia è il vissuto quotidiano che porta gli effetti peggiori. C’è anche chi non è mai riuscito a confrontarsi col problema della diagnosi.

Pensare che la diagnosi e la terapia risolvano tutto è limitante perché cancella elementi e legami fondamentali come i rapporti umani. Ma chi frequenta persone con disturbi?
Questa la linea della discussione, una linea frammentata perché frutto delle riflessioni di tante esperienze diverse; come quella di chi è alla ricerca di una diagnosi per capire cos’ha. Dare un nome medico a un disagio. Se non riesco ad andare a lavorare, mi sono ritirato, la diagnosi può servire a decolpevolizzarmi perché chiarisce le ragioni delle mie disfunzioni, ponendomi però la domanda “che cosa mi è successo?” La diagnosi serve anche per orientare nell’uso dei farmaci.

La seconda giornata ha visto protagonista il dottor Renzo Muraccini, direttore del Centro di salute mentale Zanolini. Un lungo incontro basato sulla sua esperienza personale, sul suo rapporto con la cura per cercare di capire le emozioni vissute e le traiettorie esistenziali delle persone. L’idea chiave è che le patologie più severe sono visualizzazioni dell’immaginario, della fantasia, in un contesto dove individuo e mondo sono in un dialogo costante.
L’ultimo incontro è stata una riflessione di gruppo in cui il discorso è decollato in modo molto intenso su cosa fare per aiutare le persone.

La diagnosi può cambiare nel tempo o segna un destino definitivo? Se vuoi affidarti solo alla diagnosi data dallo psichiatra, si è detto, ti fossilizzi. La diagnosi va affrontata come punto di partenza per una trasformazione.
E infine l’eterno problema dello stigma, che cancella ogni abilità, ogni capacità individuale, ogni talento. In una società competitiva è impossibile non lasciare indietro chi soffre, non offrirgli opportunità di lavoro. È per questo che bisogna portare il problema nelle scuole, nei luoghi di lavoro; creare momenti di discussione fecondi che vadano oltre le riunioni fra familiari utenti e operatori.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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