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La diagnosi fotografa solo una parte della persona. Incontro con lo psichiatra Giuseppe Tibaldi

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Dopo un episodio psicotico e un ricovero, un giovane aveva richiesto, d’accordo con la propria famiglia, una certificazione di malattia per ricevere l’invalidità. Giuseppe Tibaldi, direttore della Rete dei servizi della Salute Mentale Adulti dell’Area Nord nel Dipartimento di Salute Mentale di Modena, aveva sconsigliato di chiudere la condizione del giovane fra le mura della malattia certificata e così, dopo aver ricevuto le cure, il giovane paziente ha iniziato nuovamente a studiare fino al conseguimento della laurea e a vincere un concorso per un posto di lavoro.

Diagnosi Tibaldi
Se dovessimo collocarlo, il dottor Tibaldi sarebbe fra quelli che decisamente non amano formulare una diagnosi, “perché ha un aspetto di reificazione rispetto a qualcosa che è sempre dinamico. La situazione delle persone in difficoltà può cambiare”.
La diagnosi fotografa solo una parte della persona e il rischio che si corre in psichiatria è che quella parte possa diventare così importante da comprimere tutta l’area delle risorse personali che continuano a rimanere presenti e decisive nel percorso futuro di una persona. È la cosiddetta “disability trap”, la trappola della disabilità, un grandissimo rischio per l’individuo perché la trappola fa identificare la persona col proprio profilo da invalido, da paziente diagnosticato, “un rischio che dobbiamo avere in mente quando ci viene richiesta una certificazione diagnostica”.

Tibaldi ricorda che la persona che si rivolge a un professionista della salute mentale è in una fase fragile della sua vita e la diagnosi potrebbe rendere questa fragilità temporanea una componente duratura. Appunto, reificare il disturbo.
“La diagnosi la formulo con una nota di precauzione, mettendola dentro un ventaglio di possibili diagnosi psichiatriche che possono modificarsi e cambiare nel tempo”, spiega. D’altronde, è possibile che nel prossimo DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, il Manuale diagnostico e statistico della psichiatria, ci siano 30 nuove diagnosi e altrettante vengano riviste e modificate. “Ma nessuno è schizofrenico perché tutti coloro che ricevono questa diagnosi hanno solamente un nucleo della malattia ed espressioni differenti, uniche, e così vale per tutte le altre patologie”. Essere malato e avere una malattia è una distinzione che deve rimanere. L’obiettivo è rendere inoffensivo il nucleo su cui si appoggia la diagnosi.

Al DSM Tibaldi propone come alternativa il PTM, acronimo per Power Threat Meaning Framework, che si sofferma sulla necessità di sviluppare, insieme ai cosiddetti esperti per esperienza, un approccio multifattoriale al disagio, che contempli i determinanti sociali e psicologici e le variabili biologiche con il significato personale.

Ma se a chiedere una diagnosi sono i familiari? “Cerco di non giocare su due tavoli”. Tibaldi si riferisce soprattutto all’esperienza del dialogo aperto, nella quale la diagnosi e la cura vengono discusse all’interno di un team allargato di operatori, familiari e l’utente in modo da non lasciare indietro nessuno. Tutti insomma nel rispetto del loro ruolo concorrono contemporaneamente all’analisi della situazione. “Il dialogo aperto ha una premessa psicoterapeutica, quella di consentire diagnosi condivise nelle quali le decisioni maturano condivise fra tutti. Il secondo punto è quello delle specificità delle competenze ed esperienze di ciascuno, utilizzando tutte le conoscenze che sono a disposizione delle persone della rete”.

Dentro la psichiatria il dialogo aperto si colloca in una zona psicoterapeutica di più persone, dice Tibaldi, “la ricerca dei significati è uno degli aspetti del supporto. Il disturbo non deve, attraverso la diagnosi, diventare definitivo. Fare una diagnosi pesante, ad esempio dopo un primo episodio psicotico, è qualcosa che considero contrario ai dati scientifici sull'esperienza di guarigione. Ci sono correnti diverse e la diagnosi può essere messa in varie direzioni; io sono per una diagnosi debole. Non quella che preveda una lunga durata come condanna definitiva”.




 

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