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Conversazione sul tema della diagnosi tra utenti, familiari e psichiatri

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Continuano gli incontri dei Recovery College, spazi di condivisione della propria esperienza, con iniziative di vario genere co-progettate e co-prodotte con familiari, utenti e operatori. Il 9 aprile presso il Dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Bologna se ne è tenuto uno sul tema della diagnosi, prima parte di una due giorni di approfondimento organizzata dal Csm Saragozza insieme a Progetto Itaca Bologna, dove sono stati condivisi i pensieri sulla base del vissuto personale attraverso l’ascolto e l’espressione del libero pensiero, senza entrare in un dibattito ma ascoltando ed entrando in dialogo con gli altri.

 diagnosi

Hanno partecipato all’incontro utenti, operatori e familiari, con una netta preponderanza di questi ultimi, sempre presenti in queste circostanze per trovare ispirazioni e conforto per il loro ruolo di caregiver del malato. Fra le testimonianze quella di chi ha scoperto il disagio del parente quasi per caso, attraverso segnali e manifestazioni del sintomo. Lo stile di vita, la qualità dei servizi e la vicinanza attiva del parente sono parti fondamentali che prescindono dalla diagnosi e che favoriscono un miglioramento della condizione. Senza uno di questi elementi la strada per la recovery è in salita e il paziente, lasciato a sé stesso, può fare ben poco se non rimanere imbrigliato nei suoi sintomi.

Per alcuni familiari la diagnosi non è poi così importante, non quanto l’alleanza col medico per ottenere un criterio da seguire. Il problema della mancanza di diagnosi è quindi la mancata coincidenza con un rapporto medico-paziente che rischia di cronicizzare il disturbo o comunque di allungare i tempi di cura. L’aspettativa rimane quella di una vita dignitosa da vivere. Certo deve esserci la collaborazione del paziente che deve affrontare con spirito collaborativo e umiltà le indicazioni mediche.

Molti rifiutano la malattia e i farmaci. Per questo deve esserci un lavoro attento sulla loro scelta e la somministrazione. Un evento positivo, per esempio, è quando si passa dal depot (la somministrazione di un farmaco tramite iniezione che rilascia gradualmente nel tempo la sostanza terapeutica) all’uso della pillola, che deve essere gestita autonomamente dal paziente e dimostra una conquistata consapevolezza della cura di sé.
Certo è che la malattia può essere evolutiva o purtroppo involutiva. Dei farmaci, ha detto una familiare, è propretario lo psichiatra, ma deve essere sempre consultato chi gli sta vicino per sapere l’effetto che ha sulla personalità del paziente e intervenire rivedendo le prescrizioni. Ma non tutti fra i familiari vedono la diagnosi come un elemento accessorio. C’è chi pensa serva a oggettivizzare la malattia che è in evoluzione, fornire un punto fermo dal quale iniziare a operare con la cura.

E gli psichiatri che ne pensano? La diagnosi è un processo che non finisce mai, anche per chi si dichiara allergico alle diagnosi. Rispetto alla diagnosi andrebbe valorizzato il rapporto e il dialogo biunivoco fra paziente e terapeuta. Spiegare cosa si ha e pretendere di sapere cosa significa la diagnosi. Sono porte che si aprono o varchi che si chiudono? Se il significato etimologico di diagnosi è quello di "conoscere attraverso", questa conoscenza deve essere elastica, mobile, sempre pronta ad accogliere, essere rimessa in discussione, analizzata nel suo procedere.
La diagnosi d’altronde è solo una parte dell’analisi della complessità della persona, un orientamento in cui nessuno dovrebbe identificarsi; il rischio è di rimanere pericolosamente legati al proprio male, viverlo con rassegnazione e farlo essere presente in ogni momento, come qualcosa di ingombrante.

Per questo non aiuta il fai-da-te delle ricerche sul web delle tante persone che hanno spesso già una diagnosi, che si trasforma in attenzione morbosa nei confronti della propria condizione, come altrettanto nocive sono le autodiagnosi fatte da parte di molti giovani attraverso la rete. In questo caso comunicare la diagnosi da parte di un esperto fissa un punto rispetto a una disfunzione che va approfondita, perché il nome scientifico non dice nulla alla persona di sé stesso.
Infine c’è il tema importante della paura: quello per la malattia senza diagnosi, che quindi non ha un nome e rimane sospesa nell’indefinito, e che si scioglie dandole un nome. Ma tutti i nomi sono solamente orientamenti. Ansia leggera e pesante sono alla base di tutto e alimentano il terrore della notizia esplosiva della formulazione di una diagnosi.

La conclusione, affidata alle parole chiave dell’incontro che serviranno per ripartire al prossimo appuntamento, ha visto i familiari continuare la discussione con gli psichiatri e prendere contatto con loro. Una visione plastica, come si usa dire, della necessità da parte dei familiari di continui riscontri per il benessere dei propri cari.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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