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Dal ritiro sociale a un rapporto più sincero e profondo tra genitori e figli

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

 di Laura Pasotti, redattrice di Sogni&Bisogni

“Oggi io e mio marito abbiamo un rapporto più sincero con nostro figlio. Ma per arrivarci siamo passati attraverso una rivoluzione copernicana”. A parlare è Paola, la madre di un ragazzo che ha trascorso un periodo della sua vita chiuso in casa, in ritiro sociale, e che è riuscito a uscirne.

AMA Hikikomori

Per riferirsi al ritiro sociale volontario e per definire le persone che vivono questa particolare condizione spesso si usa la parola hikikomori, un termine giapponese che significa stare in disparte.
Il Giappone è il Paese che per primo ha parlato di questa condizione e l'ha studiata, ed è anche quello con il numero più alto di persone in ritiro sociale: nel 2022 si parlava di 1,5 milioni di casi.
In Italia le stime sulla diffusione arrivano da uno studio dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr insieme al Gruppo Abele del marzo 2023 e da un'indagine dell'Istituto superiore di sanità uscita a gennaio 2024: si parla di circa 60 mila casi, ma entrambe le ricerche riguardano solo gli studenti di scuole medie e superiori e lasciano fuori chi ha più di 18 anni.

La chiusura inizia in genere durante l'adolescenza, è più frequente tra i ragazzi ed è graduale. Pian piano gli adolescenti smettono di partecipare ad attività fuori casa che prevedono un'interazione con altre persone, come ad esempio lo sport, poi non si vedono più con gli amici, iniziano ad accumulare assenze a scuola e infine smettono di andarci del tutto, rimanendo chiusi nella propria stanza, senza avere contatti con il mondo esterno, a volte nemmeno con i loro stessi familiari, per settimane, mesi, anni. Alcune persone accusano anche malesseri fisici (forti mal di testa, mal di pancia), che però non hanno nessun riscontro a livello clinico.

Nella maggior parte dei casi, i genitori sono portati a credere che il figlio si stia impigrendo, che non abbia voglia di studiare, che stia soltanto attraversando l'adolescenza, ed è difficile che nasca in loro il pensiero che stia male. Il motivo? C'è una scarsa conoscenza sul tema, di ritiro sociale si parla poco e anche chi ha sentito il termine hikikomori spesso non sa che cosa significhi davvero.

“Noi non sapevamo nulla del ritiro sociale, lo abbiamo scoperto leggendo un articolo – racconta Paola – Nostro figlio si era chiuso in casa da poco e così ci siamo rivolti a un gruppo di auto mutuo aiuto. Grazie al loro sostegno e a quello degli psicologi, siamo riusciti a invertire la rotta. Ma è stato difficilissimo, io e mio marito siamo stati ribaltati come calzini perché ci siamo dovuti mettere in discussione e abbiamo dovuto ammettere che anche noi eravamo responsabili di quella situazione. È stato molto doloroso”.

Spesso i genitori non hanno gli strumenti per fronteggiare una situazione come quella di un figlio che rifiuta qualsiasi contatto sociale e si rinchiude in se stesso, e nella sua camera. Il percorso di ritorno alla vita passa anche attraverso un cambiamento di prospettiva degli stessi genitori, che smettono di incolpare il figlio per la condizione che vive e si mettono in discussione riconoscendo la propria responsabilità. “Come molti altri genitori, ci aspettavamo che nostro figlio fosse bravo a scuola, che facesse sport, che portasse a casa dei risultati, dei buoni voti. Quando abbiamo capito che lui non era il voto che portava a casa, ma un essere umano con bisogni, sofferenze, domande a cui non riesce a rispondere, è cambiato tutto, per noi e per lui”, aggiunge Paola.

Ma cosa spinge una persona a ritirarsi dal mondo per mesi o anni? Il ritiro sociale volontario è una condizione complessa e le cause possono essere diverse: una situazione difficile a casa, il padre poco presente magari per motivi di lavoro, la separazione dei genitori, un ambiente scolastico competitivo in cui si guarda solo alla prestazione, insegnanti che non sono in grado di valorizzare gli studenti e di appassionarli allo studio, l'angoscia del mondo in cui viviamo, la mancanza di prospettive per il futuro. Questi sono alcuni dei fattori che possono provocare in alcuni adolescenti, più fragili e sensibili di altri, una sofferenza maggiore rispetto ai propri coetanei e possono spingerli a rifiutare la scuola, gli amici, il mondo esterno, il diventare adulti.
E se la famiglia non si rende conto di quello che sta accadendo, se non ha gli strumenti per affrontarlo, la chiusura può diventare irreversibile.

“Prima della pandemia, la maggior parte dei ragazzi in ritiro era nella fascia adolescenziale, tra le medie e le superiori, alcuni con la didattica a distanza hanno provato un po' di sollievo perché si sono trovati nelle stesse condizioni di tutti gli altri e hanno riallacciato qualche relazione. Per chi, invece, aveva fragilità e maggiori difficoltà a interagire, la chiusura ha inibito le capacità di ripartire. Dopo il covid sono emersi più casi rispetto a prima, scatenati da questa situazione: ragazzi che hanno sperimentato un momento di rifugio e poi non hanno trovato le forze per riprendere il cammino”, racconta Marina Mercuriali, presidente di AMA Hikikomori Aps, associazione nata il 14 febbraio 2021 a Forlì, e presente anche a Bologna, che coinvolge genitori e psicologi.

Nel periodo successivo alla pandemia sono stati registrati anche ritiri sociali nati dall'impatto con il mondo dell'università e del lavoro, quindi in ragazzi di vent'anni o più grandi.
“Spesso si tratta di persone con ideali forti, che cercano un lavoro che li valorizzi, cosa che difficilmente accade nell'attuale mondo del lavoro dove si trovano solo impieghi precari e malpagati. Se poi queste persone partono da situazioni di timidezza o mancanza di esperienza nella relazione con l'altro, l'impatto può essere drammatico e può portarli a chiudersi in se stessi e nella propria camera perché sentono di non avere strumenti per affrontare un mondo in cui non si rispecchiano”, aggiunge Mercuriali.

E allora come si affronta il ritiro sociale? Come si chiede aiuto? “Non è semplice rispondere a questa domanda. Noi cerchiamo di sostenere i genitori, e in modo indiretto i loro figli, attraverso gli incontri dei gruppi di auto mutuo aiuto e il confronto con altre famiglie che stanno vivendo la stessa condizione. Attraverso questo autosostegno cerchiamo di ricreare una rete di relazioni”, racconta Mercuriali.
Il tentativo non è solo quello di ricostruire la relazione tra genitori e figli, ma anche una rete esterna. Spesso, infatti, le famiglie che vivono una situazione di ritiro sociale si isolano perché hanno paura di lasciare il figlio a casa da solo o perché temono il confronto con chi attorno a loro banalizza il problema e pensa che sia facilmente risolvibile. “C'è chi crede che bastino due sberle e costringere il proprio figlio ad andare a scuola, ma non è così – dice Mercuriali – Aiutare le famiglie ad aprirsi al mondo esterno può essere anche di aiuto ai figli, che possono così essere invogliati a loro volta a farlo. Senza contare che questa apertura può rasserenare i figli e diminuire il loro senso di colpa verso la sofferenza dei genitori”.

E i servizi come affrontano il ritiro sociale? “Purtroppo, bisogna essere fortunati e trovare terapeuti che abbiano una visione aperta del problema. Noi ci siamo riusciti lavorando sui noi stessi, sul nostro ruolo di genitori”, racconta Paola.
Ma non è sempre così e non sempre i servizi sono in grado di aiutare queste famiglie. L'esperienza dei genitori che frequentano i gruppi di auto mutuo aiuto di AMA Hikikomori racconta di percorsi terapeutici che si focalizzano sul risultato, un po' come avviene a scuola, cioè far uscire il ragazzo di casa, e che si affidano ai farmaci.
“Ma il punto non è soltanto farlo uscire, perché il rischio, nel caso in cui il problema non sia stato risolto, è che cerchi altri palliativi del ritiro sociale o sviluppi altri disturbi, come ad esempio quelli alimentari. I farmaci poi non risolvono, senza contare che si tratta di medicine studiate per persone adulte e che possono danneggiare in modo permanente lo sviluppo cerebrale degli adolescenti” racconta Paola.

Un altro aspetto da non sottovalutare è che non sempre i giovani ritirati sono disponibili a interagire con un terapeuta, “per questo servirebbe la disponibilità di psicoterapeuti ed educatori di recarsi a casa loro per riuscire ad agganciarli un po' alla volta – dice Mercuriali – In Emilia-Romagna esistono Linee guida sul ritiro sociale negli adolescenti, ma per attuarli a pieno serve proseguire sulla strada del confronto. Spesso il tema viene affrontato in maniera rude, con la forza e la logica. Ma non è così che si aiuta la persona a relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno”.
L'obiettivo, che anche i servizi dovrebbero perseguire, è ricostruire il legame di fiducia nella relazione tra genitori e figli, “perché ciò che ostacola il circolare di emozioni positive all'interno della famiglia, ostacola il recupero e la risalita. Spesso la prima emozione che provano i genitori che si trovano a vivere questa situazione è rabbia e quella rabbia deve uscire, deve evolvere e diventare altro, altrimenti rimane la chiusura reciproca”, aggiunge la presidente di AMA Hikikomori.

Uno strumento importante è il lavoro sulle emozioni, come racconta ancora Paola, “la terapeuta a cui ci siamo rivolti ci ha spiegato l'importanza della lettura e della condivisione delle proprie emozioni. Ad esempio, ci ha detto che di fronte a uno scoppio d'ira di nostro figlio, noi saremmo dovuti rimanere lì, non scappare, quasi accogliere quella rabbia e poi condividere con lui le emozioni che aveva scatenato in noi, come la paura, la mancanza di respiro, l'accelerazione del battito, in modo da riportare nel suo corpo l'attenzione alle emozioni”.

Quello che può funzionare poi è attivare la scuola, i dirigenti scolastici e i compagni di classe, insieme alla famiglia, per provare a risolvere la situazione dal basso e non con interventi calati dall'alto. “Bisogna dare al ragazzo la sensazione di essere capito, di essere accolto con le sue fragilità e rassicurato sul fatto che la famiglia lo ama così com'è, che non c'è competizione a scuola e che i compagni lo vogliono in classe con loro – continua Paola – Se si danno questi input, c'è una speranza che ritorni a far parte della comunità”.

Un esempio è il progetto realizzato in tre scuole di Bologna da YouNet e a cui hanno partecipato anche AMA Hikikomori, l'Istituzione Minguzzi e la giornalista Laura Calosso: l'obiettivo era spiegare agli studenti che cos'è il ritiro sociale e farli lavorare sul tema per verificare se in Rete se ne parla in modo corretto. Questo lavoro ha consentito di intercettare alcuni studenti che non andavano più a scuola e che avevano tutte le caratteristiche di persone ritirate, di provare a ricreare con loro una relazione e riportarli a scuola. In alcuni casi ci sono riusciti. “C'è chi ha pensato che non fossero davvero hikikomori, ma non è così. Senza l'intervento dei loro compagni, arrivato prima che la chiusura diventasse severa, non sarebbero tornati. Così invece si sono sentiti benvoluti”, dice Mercuriali.

Qualcosa si sta muovendo nel mondo della scuola, e negli uffici scolastici provinciali di Bologna e Forlì ci sono persone attente e disponibili all'ascolto. “Poi è vero che ogni scuola fa caso a sé e molto dipende dal dirigente scolastico, ma stiamo facendo qualche passo avanti – aggiunge Mercuriali - Ciò che servirebbe però è diffondere una maggiore conoscenza del ritiro sociale e fare prevenzione, per questo stiamo ragionando su incontri che coinvolgano la popolazione in generale e su attività socializzanti che possano contribuire a prevenire le situazioni di disagio”. Un esempio sono i percorsi specifici sulla comunicazione non violenta o empatica e sulla lettura e la condivisione delle emozioni reciproche che AMA Hikikomori sta realizzando a Forlì e Bologna.

Il rapporto con nostro figlio è cambiato moltissimo, così come il nostro ruolo di genitori. Io e mio marito dobbiamo ringraziare nostro figlio perché il dolore che abbiamo vissuto ha provocato uno tsunami che ha generato una relazione migliore nella nostra famiglia, una relazione più profonda, basata sulla comprensione. Su consiglio della psicologa, abbiamo smesso di assillare nostro figlio con richieste e proposte e gli abbiamo lasciato spazio. Gli siamo stati vicini, abbiamo fatto cose insieme, piccole cose come guardare un film o giocare a carte, per ricreare una relazione e pian piano far rinascere in lui il desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa, e passare dal nichilismo strisciante che permeava la sua visione al desiderio di tornare alla vita”, conclude Paola.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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