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“Kripton”, la salute mentale sul grande schermo

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Chiara Ghelfi, redattrice di Sogni&Bisogni

Nell’anno del centenario della nascita di Franco Basaglia, nelle sale cinematografiche è uscito “Kripton”, il documentario di Francesco Munzi che racconta le storie vere di sei persone con problemi di salute mentale. La redazione di Sogni&Bisogni ha assistito alla proiezione del 23 gennaio al cinema Modernissimo di Bologna e ha seguito il dibattito successivo insieme al regista e a Mauro Pallagrossi, psichiatra che lavora nelle comunità ed è presente anche nel documentario.

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Basaglia, a cui si deve la legge del 1978 che ha portato alla chiusura dei manicomi, ha affrontato una lunga battaglia per affermare un modo diverso di trattare la malattia mentale, più attento all'individualità e all'umanità delle persone. Un'attenzione che ritroviamo in “Kripton”, un racconto coinvolgente e di grande sensibilità, le cui parole chiave sono pudore ed empatia, che dà allo spettatore molti spunti di riflessione e a cui è impossibile restare indifferenti.

“Kripton” è stato girato in due comunità psichiatriche di Roma (una per giovani dai 18 ai 26 anni e una per adulti) e nasce dalla convivenza, durata cento giorni, della troupe con sei giovani pazienti, con i loro familiari e con il personale sanitario delle comunità.
Il documentario racconta le vite, i pensieri, le patologie, di Dimitri, Marco Antonio, Georgiana, Silvia, Benedetta e Emerson. Dimitri è in balia di “pensieri troppo veloci” che non riesce a gestire e vede il mondo come qualcosa di fasullo di cui si rifiuta di far parte. Silvia combatte un disturbo alimentare da quando aveva 12 anni. Georgiana crede nell'oscurità e nell'esistenza dei raptor e vorrebbe riprendersi la figlia, portatale via dai servizi sociali. Emerson e Benedetta affrontano la realtà l'uno inseguendo l'empatia verso il prossimo e l'altra cercando di imparare l'italiano ma attraversando le stanze della comunità come se il pavimento rischiasse di crollare da un momento all'altro. Marco Antonio è convinto di essere ebreo e di venire da un altro pianeta, quel Kripton che dà il titolo al film.

Nel documentario entrano in scena anche i familiari, che spesso faticano ad affrontare le enormi difficoltà di vivere con un figlio o un fratello con disturbi mentali, e gli operatori che, giorno dopo giorno, condividono con i protagonisti il progetto, li supportano nel percorso riabilitativo e li sostengono nei momenti buoni e in quelli di crisi.
Una delle scene che colpisce di più è quella in cui vediamo uno degli incontri tra Dimitri, i suoi genitori e gli operatori. Durante il colloquio, la madre dice senza imbarazzo davanti al figlio che per lui non c'è nulla da fare. La crudezza delle sue parole e l'assenza totale di dolcezza è spiazzante.
Anche Marco Antonio ha una storia familiare complicata. Dopo aver allontanato i figli (Marco Antonio, il fratello e la sorella) dalla madre, il padre li ha lasciati spesso da soli, affidandoli alle cure di una bambinaia, inadeguata a sostituire la figura materna.

In tutti i protagonisti la follia allontana e avvicina al contempo. Accade, ad esempio, quando Georgiana descrive con lucidità che la sua esistenza è frutto di un'oscurità che domina tutto oppure quando Silvia dice di non sognare più. Commuove la visione nichilista del mondo di Dimitri e spiazza la volontà di Marco Antonio di essere un ebreo ortodosso pur di cancellare la sua identità passata, arrivando a non riconoscere più la sorella e riferirsi a lei come “quella ragazza”.
Durante la visione colpisce l'alternarsi di immagini a colori e in bianco e nero, come se il regista volesse evocare il mondo “normale” e quello della patologia, e i rumori di fondo che richiamano le distorsioni del pensiero pur senza invadere mai il racconto.
Le storie si intrecciano così con immagini di repertorio, sfocate, funzionali a far meglio comprendere la confusione che si agita nella mente dei protagonisti. Munzi ha raccontato che, mentre girava il film, si è reso conto della necessità di inserire un contrappunto, qualcosa di evocativo per far fare un viaggio emozionale allo spettatore: “Mi chiedevo spesso che cosa fosse successo nell'infanzia dei protagonisti, per questo ho scelto di inframezzare il racconto con immagini in bianco e nero che ricordano la vita infantile”.

In “Kripton” vediamo un piccolo stralcio della vita di comunità e ascoltiamo la voce dei pazienti/protagonisti. Grazie a questo documentario chi non è del settore ha la possibilità di capire che cos’è una comunità e cosa succede al suo interno, di vedere come si costruisce il rapporto medico-paziente e come si svolge il lavoro degli operatori nel processo riabilitativo.
Ma soprattutto permette di vedere chi ha problemi di salute mentale come una persona, provando ad abbattere lo stigma e favorendo l’integrazione.
Nei titoli di coda vengono presentati alcuni dati sulla salute mentale in Italia e sui tagli ai servizi, lasciando allo spettatore la riflessione su cosa può fare la collettività per riportare il discorso sulla salute mentale nel dibattito pubblico.

Al termine della proiezione il regista e lo psichiatra hanno incontrato il pubblico per raccontare la nascita del documentario e rispondere alle domande degli spettatori.
Munzi ha raccontato che “Kripton” è nato come un esperimento, “non c'era niente di scritto ed era imprevedibile prevedere quello che sarebbe successo. Cento giorni erano il nostro confine, in quei cento giorni abbiamo trovato le nostre traiettorie. La preoccupazione iniziale era che non sapevo dove sarei arrivato ma volevo avvicinarmi al mondo della mente e all'idea di sofferenza che si legge sui giornali”.

Pallagrossi ha raccontato che quando ha incontrato per la prima volta Munzi era un po' diffidente, perché quello della salute mentale è un tema difficile da trattare, “ma conoscendolo ho capito che era una persona di grande disponibilità e onestà, una persona che, a prescindere da idee preconcette, voleva documentare, capire, entrare nella vita di queste persone dando spazio alla loro soggettività. Non abbiamo voluto inserire la figura di un esperto, ma abbiamo preferito esplorare il modo di stare al mondo di queste persone. Kripton non è un film sul dispositivo di cura ma sulla soggettività e sulla relazione di cura. Un cinema verità, dove la relazione è al centro”.

Uno dei temi emersi durante il dibattito ha riguardato la presenza della troupe nelle comunità. È stato Pallagrossi a raccontare come hanno reagito i protagonisti davanti alla telecamera: “C'erano poche persone e, pian piano, Valerio Azzali, il cameraman, è diventato parte di noi e ancora adesso ci viene a trovare. Munzi si è conquistato la stima dei pazienti che hanno deciso spontantamente di manifestare le proprie sofferenze davanti a una cinepresa che poi è come sparita dalla loro vista. Un rapporto quindi di estrema fiducia che ha interessato anche le loro famiglie e gli stessi operatori sanitari”.

“Kripton” è stato presentato al Festival del cinema di Roma ma prima erano state fatte alcune visioni protette con gli operatori e i protagonisti. “La loro reazione è stata interessante – ha detto Pallagrossi – Si stavano mettendo a nudo, ne erano consapevoli, ma la visione è stata una sensazione di piacere, un'occasione per riflettere su alcune cose, per costruire una maggiore consapevolezza delle loro capacità, un sostegno al sé. Stiamo parlando di un percorso che sta andando avanti e che non è mai lineare. Complessivamente il film è stato preso in termini molto positivi. Anche l’essere al centro dell’attenzione, un aspetto un po' narcisistico, ma in certi casi anche riparativo”.

Lo psichiatra ha sottolineato la bellezza di poter vedere in “Kripton” la relazione terapeutica che cerca di dare significato a quello che il paziente racconta: “Questo è il tentativo del nostro lavoro, una sorta di spartiacque tra diversi modi di fare psichiatria, tra un atteggiamento che ricerca un senso e uno che registra un disturbo. Io tengo molto al primo, più ricco sia per me che per i pazienti – ha detto – Questo è utile anche per il paziente che può dare un nuovo senso alla sua storia. Cercare di riavviare un percorso evolutivo diventa eticamente fondamentale”.

Kripton è un viaggio nel mondo della salute mentale, un viaggio nella giovinezza e nelle difficoltà della vita. Qualcuno dalla platea ha chiesto se è un film politico.
“Il film diventa politico nel raccontare le storie delle singole soggettività – ha risposto Munzi – Se vogliamo fare un discorso di sistema possiamo fare un ragionamento: il pensiero di base è che in psichiatria il farmaco più potente è l'operatore. Allora che tipo di sistema vogliamo?”




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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