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Outsider art o arteterapia? Un'intervista con lo psichiatra Roberto Boccalon

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Negli anni ’40 il pittore francese Jean Dubuffet introduce il termine Art Brut per indicare il profilo specifico di irregolarità e spontaneità dei prodotti estetici realizzate da persone con disturbi mentali o comunque operanti al di fuori di norme estetiche e contesti convenzionali. Nello stesso periodo il pittore Adrian Hill introduce il termine Art Therapy avendo sperimentato su di sé il valore curativo dell’arte durante un lungo ricovero in ospedale. I termini Art Brut o Arte Irregolare, rivelatisi restrittivi in quanto tendenti a omologare il campo di una psicopatologia dell’espressione, sono stati sostituiti dal termine Outsider Art, dove Outsider indica la molteplicità di circostanze e limiti (psicologici, economici, culturali, politici) in cui l’artista produce la propria visione dell’esistenza e le sue opere.

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Di Outsider Art e di Arteterapia, di processi creativi e del loro ruolo in ambito clinico e formativo, abbiamo parlato con Roberto Boccalon, psichiatra e psicoterapeuta di formazione analitica, docente IUSVE (Istituto universitario salesiano di Venezia) e presidente dell'International Association for Art and Psychology.

Prof. Boccalon, nelle opere d’arte possiamo trovare indicati profili della psicopatologia e delle istituzioni psichiatriche?

Lo sguardo dell’arte, nel corso dei secoli, è riuscito a offrirci una narrazione iconica della sofferenza psichica, ma anche una rappresentazione dello spazio istituzionale in cui veniva confinata e spunti di riflessione su di esso. Hieronymus Bosch con il suo quadro La nave dei folli rappresenta, attraverso il registro del fantastico, la spirale di mortifera alienazione dovuta al forzato confinamento delle pulsioni primarie. Francisco Goya con il quadro La casa dei matti, presentando una massa disperata in uno spazio che richiama una bolgia infernale, testimonia come la demonizzazione del dolore mentale possa razionalizzare e legittimare come cura una disumana condanna. Telemaco Signorini con il quadro La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze, conferma la persistenza, anche se in termini architettonicamente edulcorati, della stessa pratica di disumanizzante istituzionalizzazione. Con Vincent Van Gogh abbiamo un artista che rappresenta lo spazio in cui è ricoverato. Il suo quadro Iris ritrae i fiori osservati dentro l’ospedale di Arles. Con il quadro L’Urlo, Edvard Munch conferisce alla rappresentazione di un suo vissuto di angoscia il profilo di una testimonianza universale. Oltre al contributo dei suddetti artisti, moltissime altre opere d’arte sono state realizzate, spesso in situazione semiclandestina, da pazienti nelle istituzioni psichiatriche. Tali opere, raccolte e valorizzate inizialmente attraverso la raccolta di Dubuffet, hanno dato origine all’ Art Brut intesa come autonomo e specifico filone artistico.

Che cosa ha dato la spinta alla creazione e catalogazione di tante opere di pazienti psichiatrici?

Fin dall’Ottocento si è assistito, paradossalmente, a un certo interesse per le arti all’interno delle istituzioni psichiatriche, nonostante le dinamiche asilari e totalizzanti che le caratterizzavano si collocassero agli antipodi di una prospettiva creativa. In precedenza il marchese De Sade da internato metteva in scena spettacoli teatrali con il contributo degli altri pazienti nell’ospizio di Charenton. Nel panorama dei manicomi italiani ci sono diverse tracce di espressione artistica. Spesso è clandestina o tollerata, come avviene per i graffiti realizzati dai detenuti nelle carceri. I pazienti in maniera autogestita costruiscono opere d’arte non riconosciute. A Collegno (Torino), un paziente ex carabiniere, Francesco Toris, realizza la complessa scultura intitolata Il nuovo mondo utilizzando le ossa scartate nella cucina del manicomio. Fernando Nanetti ricoverato a Volterra realizza, utilizzando solo la fibbia del suo gilet, un graffito lungo 180 metri che corre tutto attorno al muro del cortile manicomiale. A volte l’attività espressiva è riconosciuta, ma solo come opportunità occupazionale e di intrattenimento per i pazienti ricoverati. Qualcosa cambia quando si organizzano nei manicomi atelier tenuti da artisti. Il caso più emblematico è quello di Verona nell’immediato Secondo Dopoguerra. Michael Noble, artista e ufficiale dei servizi segreti britannici ha il compito di favorire la ripresa dei giornali indipendenti, come il Corriere della Sera. Durante la permanenza in Italia conosce il direttore dell’ospedale psichiatrico di Verona e, visitando la struttura, rimane colpito da un graffito su un muro. Gli infermieri si scusano con il direttore, assicurano che i graffi sul muro erano stati prodotti di recente, dopo l’imbiancatura del muro che avena provveduto a cancellare quelli precedenti. Ma Noble riconosce il valore artistico di quel segno tracciato sul muro e desidera conosce l’autore: il paziente Carlo Zinelli. Quell’incontro sarà decisivo. Noble si propone come animatore di un atelier interno al manicomio che riuscirà a garantire a Zinelli la possibilità, nonostante il manicomio, di dipingere per il resto della vita. Le sue opere saranno esposte a Parigi e ci fu una monografia nella rivista di Dubuffet.
Ci fu anche un significativo caso di obiezione di coscienza da parte di Bruno Caruso, un artista chiamato a Palermo per coordinare un atelier. Quando egli si rende conto delle condizioni disumane in cui erano tenuti i pazienti, che i disegni da loro prodotti erano utilizzati solo come test diagnostici per valutare l’efficacia dei neurolettici, e che rischiava di coprire con una patina di arte la violenza istituzionale, si mise a disegnare i pazienti e per rappresentare e testimoniare i loro bisogni, diritti e dignità. Una delle opere di Caruso fu utilizzata da Franco Basaglia come manifesto per una campagna nazionale antimanicomiale.
Il lavoro di Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia apre una nuova prospettiva. Contattati da Franco Basaglia, avviano con gli studenti dell’accademia di belle arti un open studio dove tutti possono entrare a fare arte. I pazienti a quel tempo simpatizzavano con un vecchio cavallo che veniva utilizzato per trasportare con un carretto cibo, vestiti e quanto fosse necessario. Si decide perciò di realizzare una monumentale statua di cartapesta oggi nota come Marco Cavallo, talmente grande da non potere uscire dal manicomio. Franco Basaglia decide perciò di sfondare il cancello della struttura per portare in corteo la statua equina. Come un cavallo di Troia al contrario, Marco Cavallo portò i pazienti fuori dalle mura dell’istituzione, favorendo una presa di coscienza collettiva della loro condizione.

Spesso l’Arte Irregolare viene confusa con l’arteterapia.

Vi possono essere diversi articolazioni del rapporto tra arte e salute. Per arteterapia si intende un intervento finalizzato al raggiungimento di un obiettivo di benessere per il paziente. In ambito anglosassone fin dagli anni ’40 vi sono esperienze significative del curare ad arte. Il pittore Adrian Hill, paziente in un sanatorio per malattie tubercolari propone agli altri di dipingere per stare meglio e introduce il termine Art Therapy. Il pittore Edward Adamson fa una analoga proposta in un ospedale psichiatrico pensando che fare arte sia terapeutico di per sé. Edith Kramer e Margaret Naumburg, sono le due pioniere dell’Arteterapia. La Kramer fu allieva di Friedl Dicker-Brandeis una pittrice che, internata nel campo di concentramento di Terezin, aveva realizzato un laboratorio per bambini attraverso il quale si tentava di esorcizzare le paure e attenuare in parte le loro emozioni esternandole. Ancora oggi a Praga sono esposte le opere di questi bambini. La Kramer prende contatto con gli ex partecipanti sopravvissuti, e ormai adulti, e ne scopre la capacità di resilienza che hanno sviluppato. Si convince che l’esternazione del dolore può avere una funzione protettiva. Per la Kramer la produzione artistica fa bene comunque, non pretende di curare ma crea una zona franca che procura piacere. La Naumburg, allieva di John Dewey e Maria Montessori, psicanalista junghiana, parla invece dell’arte nella terapia. La psicoterapia può avvalersi dell’arte, della produzione o della fruizione estetica, perché l’inconscio si manifesta, come il sogno, soprattutto nell’immagine, come Sigmund Freud aveva già intuito. Klein e Winnicot capiscono che per lavorare con i bambini ci vuole il gioco e il disegno. I bambini che non hanno ancora conquistato la parola interamente, possono comunicare con l’immagine. Anche gli adulti, attraverso l’immagine, possono superare i limiti intrinseci della parola. Gli sviluppi della psicanalisi confermano la struttura multicodice della mente e lo spazio psicoterapico, di conseguenza non può essere popolato solo dalla parola.
Edelmann scrive che dalle grotte del neolitico ai giorni nostri la produzione artistica cerca di creare un ponte tra l’esperienza di sé e del mondo e della sua rappresentazione. Una volta rappresentata se ne può parlare. Quando all’interno del setting terapeutico vengono sdoganati tutti i codici preverbali possiamo parlare di psicoterapie espressive. Si può parlare di sé partendo dal sogno e attraverso la produzione grafico pittorica, ma anche con la musica, attraverso la danza, il teatro, la scrittura creativa. Il lavoro terapeutico ha a che fare con il rammentare per ricostruire una trama del sé. Rammendare attraverso il rammentare. Cucire un trauma attraverso la memoria. È difficile arrivare a una narrazione verbale per una esperienza molto dolorosa che non può essere immediatamente raccontata. Il rammendo/rammendo rende un trauma più tollerabile.
Bisogna promuovere un’alfabetizzazione mutlicodice dell’essere umano, il più possibile e ovunque. È il modo per preservare la nostra psicodiversità. Un tempo si parlava dell’intelligenza declinata lungo un unico asse, del livello intellettivo (QI), mentre ora le evidenze scientifiche ci confermano che ci siamo intelligenze multiple interconnesse. Intelligenze cinestesiche, matematiche, grafico pittoriche, musicali e tutte quelle che una persona può contenere. La prospettiva delle psicoterapie espressive si fonda sulla consapevolezza che i canali di comunicazione intra e interpersonali possono essere realizzati con codici diversi, multipli che sono una garanzia di promozione di un’ecologia umana. È necessaria una particolare attenzione e responsabilità nel modulare i linguaggi non verbali perché hanno una potenza molto profonda e sono delicatissimi.

Pensa che possa essere affidato a chiunque il coordinamento di un atelier per pazienti psichiatrici?

Come esistono diverse patenti di guida, a seconda delle caratteristiche del veicolo e nell’interesse del pilota e dei passeggeri, penso che il profilo professionale e motivazionale debba sempre essere coerente con il compito. Penso sia opportuno definire con chiarezza spazi, obiettivi, competenze, stili di lavoro. Lo spazio, l’ambiente dell’atelier deve essere favorevole, idoneo a promuovere il processo creativo. Dobbiamo impegnarci a realizzare ambienti sufficientemente favorevoli.
Vi possono essere diverse articolazioni di un lavoro di gruppo a mediazione espressiva. I codici preverbali sono parte del prontuario da cui tutti possono attingere ma si possono precisare obiettivi distinti. Ci può essere un atelier che può avere un ruolo preliminare di incubatore, un atelier di attività occupazionale o che si propone come spazio di socializzazione. Potremmo individuare come livello basico in un atelier quello occupazionale, come intermedio quello in grado di stimolare il paziente alla creazione dell’opera d’arte, come alto quello in cui possa esserci un lavoro di riflessione ed elaborazione a livello individuale o di gruppo che configura la funzione psicoterapeutica. Considero necessario ripensare in maniera rigorosa il lavoro psicoterapico e promuovere negli psicoterapeuti la competenza nell’utilizzo dei codici non verbali non solo coi bambini, ma anche con gli adulti. È importante che ci sia l’occhio di un artista che possa interagire con il paziente, ma anche che ci sia famigliarità con il codice artistico nei diversi soggetti che costituiscono il gruppo di lavoro.

 



 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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