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Che cosa serve per stare bene? La voce delle persone seguite dai servizi di salute mentale

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni e Laura Pasotti, redattori di Sogni&Bisogni

In via di Corticella il tavolo non c'è, ma una trentina di sedie sono state disposte in cerchio sotto gli alti platani nel giardino sul retro della Casa di Tina, la casa delle associazioni della salute mentale di Bologna. A occuparle ci sono persone seguite dai servizi di salute mentale, operatori, medici, familiari, studenti, volontari delle associazioni, rappresentanti del quartiere, insegnanti.

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Il tema su cui si confrontano, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale, è la relazione tra salute fisica e salute mentale, tra corpo, mente e spirito. Lo spunto è una frase scritta con un pennarello verde su una lavagna: “Quando si hanno problemi di salute mentale è come se tutto il resto della persona sparisse”. Il resto della persona però è lì con i suoi desideri, le sue aspirazioni, le difficoltà economiche, il suo corpo. E invece tutto si ferma alla malattia.

La salute è una, riguarda le persone nella loro interezza, fatta di corpo, mente e spirito. E invece spesso ci si dimentica che chi ha problemi di salute mentale ha anche un corpo e che stare bene nella propria pelle può aiutare a stare bene anche nella propria mente”, dice Marie-Françoise Delatour, familiare dell'associazione Cercare Oltre, tra gli organizzatori dell'incontro.

La prima difficoltà però è proprio quella di curare il proprio corpo: manca un'informazione da parte dei medici specialisti su quali possono essere gli effetti collaterali dei farmaci che prescrivono, così come c'è la difficoltà a coinvolgere il proprio medico di base perché quando c'è di mezzo un disturbo mentale tutto, o quasi, viene rimandato allo psichiatra. Ma da cosa dipende il benessere? E che cos'è che ci fa stare bene? Sono tanti i fattori che influenzano la salute: avere una casa, delle certezze economiche, una rete di relazioni, un lavoro, avere la possibilità di esprimere il proprio talento e di perseguire i propri obiettivi.

Marie-Françoise sottolinea l'importanza di un'alimentazione sana unita al movimento e alla meditazione. Daniele invece pensa allo sport: “Quando stavo male, ero sempre chiuso in casa. Grazie allo sport ho ricominciato a uscire, a incontrare persone, a socializzare. In questo senso, fare attività sportiva può essere trainante per altre cose”. Per Alessandro è avere qualcuno che crede in te. Per Giovanni lo stimolo a stare bene è interno, arriva dalla meditazione. Per Dario è stato l'incontro con un'associazione del territorio, Il Ventaglio di O.R.A.V.: “Il ventaglio è fatto di diversi colori e grazie a loro io ho trovato il mio, che è poi il mio talento, l'informatica”.

Entrare in contatto con altre persone è un altro fattore importante, ma non è sempre facile, soprattutto per chi ha problemi di salute mentale. Spesso i luoghi da frequentare sono legati ai servizi, quando invece ci vorrebbero spazi di condivisione diversi. “Il baretto nato alla Casa di Tina quest'estate ne è un esempio perché è un luogo protetto, non giudicante – dice Roberta –: in questo giardino nelle sere di agosto e settembre si sono ritrovate a mangiare, chiacchierare, ascoltare musica insieme, persone che non uscivano quasi più di casa”.

A un certo punto la discussione si sofferma sulla necessità di coinvolgere la comunità, di costruire progetti in cui le persone stanno insieme per “creare accessibilità relazionale nei confronti del cittadino inteso come persona, uscendo dalla dicotomia utente-non utente", dice Antonella che vorrebbe non sentire più parlare di accettazione e tolleranza, ma di rispetto. “Costruiamo servizi nell'ottica di garantire o recuperare il diritto alla cittadinanza”, suggerisce Catia. “Lavorare per l'armonia del corpo e dello spirito è fondamentale. Lo squilibrio tra un elemento e l'altro può portare a una condizione di vulnerabilità – dice un'altra Antonella – La presa in carico dev'essere comunitaria: organizziamo qualcosa insieme, dedichiamo dei momenti a capire come funzionano i servizi coinvolgendo chi ha superato momenti difficili perché può essere utile agli altri. La prossimità si fa per mettere in moto sperimentazioni”.
La rete c'è già, è qui – dice Gabriella che guarda alla composizione eterogenea del tavolo – Sanità e sociale non bastano. Ognuno di noi deve pensare a che cosa può fare per il benessere di chi ci sta intorno”.

Casa, salute, reddito, influenzano la salute mentale, ma ci sono anche fattori ambientali e culturali come la presenza di biblioteche e centri di aggregazione vicino a dove si abita, l'inquinamento e il rumore. È Silvia a parlare: “Dobbiamo chiederci se si può fare epidemiologia e prevenzione sulla salute mentale. Per farlo servono azioni sistemiche, bisogna mettere in relazione medici di base e specialisti e creare consapevolezza nei pazienti. Le reti sul territorio possono fare molto, ma serve anche l'intervento del pubblico”. Non sempre però la rete funziona. E spesso c'è poca attenzione da parte dei servizi al territorio.

È Carla a mettere in evidenza un punto critico: “Da gennaio, Dario, una persona che fa parte della mia associazione, non ha più un tirocinio. Il Dipartimento, infatti, ha deciso che poteva iniziare un percorso lavorativo diverso, senza consultarlo né chiedere un parere a chi lo segue da anni. Per loro era solo un nome su una cartella, non una persona. Se non ci fosse stata l'associazione, sarebbe tornato indietro di 15 anni, anche perché la diagnosi funzionale che dovrebbe servire per trovare un lavoro, è arrivata solo pochi giorni fa. Lui però in tutti questi mesi non ha avuto un'entrata. Dario non è il solo, nella sua situazione ci sono altre persone. E allora mi chiedo: dove sono i servizi? Dov'è la comunità? Dov'è la rete?”.

Il tema del lavoro, e di una sicurezza economica, in relazione alla salute è uscito con forza nel confronto. Per molti è un fattore fondamentale di benessere, come racconta Silvia: “Ho vissuto momenti di isolamento che ho superato grazie a un lavoro che mi piace e che mi ha permesso di conoscere persone nuove”. Ma i punti critici non mancano. “Le persone seguite dai servizi di salute mentale hanno difficoltà economiche incredibili. Chi ha la fortuna di fare un tirocinio guadagna 300 euro al mese, ma come fa con le bollette? Io sono molto preoccupata. E poi mi dite che la comunità ci accoglie? Per la salute serve anche una tranquillità economica”, dice Roberta. Le fa eco Giovanni: “La salute passa anche da una sana economia. Lo spirito bisogna avere la tranquillità di coltivarlo”.

La casa e il lavoro al centro del caffè randomizzato del San Camillo
Il lavoro è uno dei temi del tavolo di discussione che si è svolto a San Lazzaro, distretto periferico dell’AUSL di Bologna, nella struttura del San Camillo gestita dalla cooperativa Agriverde, ai confini fra città e campagna. Qui una piccola comunità di utenti con fragilità mentali lavora coltivando verdure e raccogliendo frutta nel pieno rispetto della natura, senza uso di pesticidi e diserbanti. “È faticoso ma è una grande soddisfazione mettere in vendita i nostri prodotti”, racconta Nicola, uditore di voci. “Inoltre il lavoro fisico mi libera la mente. Le voci in quel momento di fatica scompaiono e mi sento in pace”.

Nella cornice verde e assolata della cooperativa, all’aperto, si dialoga in due, come in una colazione fra amici, poi le coppie si riuniscono in gruppi da quattro persone per scambiarsi le prime considerazioni che verranno poi riportare in una sessione finale collettiva. “Nella solitudine le voci sono più forti – racconta – Vivere in una casa vuota amplifica il disagio”.

Come faccio ad avere una casa tutta mia se, per motivi di salute, non riesco a ottenere un lavoro? Questa è una delle domande guida proposte da una scheda distribuita per facilitare la discussione. Sicuramente bisogna riconquistare la propria dignità di persona portatrice di diritti, che deve inserirsi nella comunità per pretendere il proprio riconoscimento. Ma, nota amaramente Nicola, se per vivere è necessario un tetto sotto il quale vivere questo non me lo garantisce certo la sola pensione di invalidità. Ecco allora la necessità di trovare un lavoro, necessità negata da un mercato che non è capace di includere le persone con disturbi mentali. “E se si ha la fortuna di ottenere un lavoro questo non deve essere una merce di scambio”, aggiunge Nicola, intendendo che l’occupazione non può e non deve esaurirsi nella prestazione, ma deve svolgersi in un ambiente comprensivo e accogliente. “Il mondo del lavoro è irraggiungibile per chi ha problemi mentali e spesso, quando lo si raggiunge, alimenta i disturbi attraverso lo stress causato da richieste, di orario più che di mansioni, che non tutti sono in grado di sostenere”. Nicola racconta di quanto la situazione dello stress percepito si sia aggravata durante il covid, nel post covid e con le notizie provenienti dalla guerra fra Russia e Ucraina.

Evidentemente il mondo dell’informazione deve cominciare a ragionare seriamente sulle modalità della diffusione delle notizie, che da diritto-dovere rischia, quando diventa ossessivo e martellante, di alimentare ansie e angosce nei soggetti più fragili. “Con la solitudine, i brutti pensieri sull’attualità che ci circonda, la paura di non riuscire a pagare gli affitti, le bollette, le prime necessità, la vita diventa difficile se non impossibile”. Quante persone conosciamo che davanti alle incombenze, o peggio alle insolvenze, si sono trovate a dovere pagare gravi sanzioni fiscali? Questo è un argomento che non viene mai trattato, eppure è una delle cause che incrinano la serenità di chi, nel disturbo, tenta di condurre una vita autonoma.

Curiosamente emerge una considerazione che accomuna questo tavolo a quello sulla condizione dei detenuti: l’esperienza di trovarsi a che fare con l’esordio di un disagio mentale o con dei problemi giudiziari può verificarsi più facilmente di quanto siamo portati a pensare. In entrambi i tavoli, seppure non fossero in comunicazione tra loro, è stata richiesta una “formazione al possibile”, cioè alla consapevolezza che le condizioni di disagio, proprio perché possono riguardare chiunque, devono essere considerate in modo empatico e non giustizialista. Autonomia non significa abbandonare la persona a sé stessa: deve comunque sussistere una rete di socialità e appoggio che possa intervenire quando c’è una richiesta d’aiuto. Solo attraverso questa rete, fatta di coinvolgimento sociale, di frequentazione e capacità di dialogo e comprensione, si può sperare nell’abbattimento dello stigma. E ancora: la realtà dei servizi è poco conosciuta dalle persone che potrebbero usufruirne. Bisogna incrementare la comunicazione fra esterno e interno dei servizi e delle istituzioni, perché bisogna che siano in grado di rispondere alle esigenze primarie dei disabili.

Una richiesta è stata quella di una maggiore flessibilità nelle regole dell’ACER, che consentano e promuovano le coabitazioni fra caregiver e disabili. Ai partecipanti era richiesto di scrivere liberamente qualche riga su cosa vuole dire per loro “casa”. Ecco un testimonianza significativa, riportata per intero: “La casa è uno dei beni primari e senza una casa la vita sarebbe impossibile. Ma non basta vivere fra quattro mura: bisogna riempirle di oggetti, metterli in ordine, tenere pulito. Il cibo deve essere sano e conservato correttamente. L’ambiente casalingo deve essere fresco d’estate e caldo d’inverno. Una casa però non è fatta solo di oggetti ma anche di affetti. Che dovrebbero evolversi da quelli familiari a quelli di una coppia".




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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