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Storia di G., l'impegno lavorativo per rinconquistare un equilibrio

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

L’importanza delle storie degli utenti dei Centri di Salute Mentale risiede nel racconto diretto, senza che ci siano intermediazioni di operatori o familiari. La raccolta delle loro esperienze dirette permette di verificare cosa effettivamente funzioni e non funzioni nei servizi, nelle relazioni, nei diritti.

foto articolo G

Prendiamo il caso di G.: la sua è una storia di depressione maggiore, covata da sempre ed esplosa dopo un abbandono. Una relazione sentimentale conclusasi dolorosamente. Ma negli alti e bassi di questa malattia, scatenati da lutti, ansie e stress vari, la costante che insegue G. senza tregua è la difficoltà sul lavoro. Fino al punto di rottura, che separa una vita dal funzionante al disfunzionale della malattia, G. è stata un’impiegata modello, una persona sportiva, attiva, in piena forma. Poi, dopo l’accumulo esplosivo di stress che scoperchia la pentola della depressione, G. si rivolge a un Centro di Salute Mentale, dove oltre alla presa in carico terapeutica conosce anche il servizio di Individual Placement and Support (IPS) dell’AUSL di Bologna.

G. sente la necessità di riconquistare un equilibrio attraverso l’impegno lavorativo. Le viene assegnata una tutor-psicologa che si occuperà di individuare insieme a lei le occasioni di lavoro più interessanti. Scoprono l’esistenza del progetto Insieme per il Lavoro, promosso da Comune di Bologna, Città Metropolitana e Arcidiocesi di Bologna. Rivolto a chi ha necessità di essere affiancato nella ricerca di un lavoro sembra proprio fare al caso di G., anche se rispetto al servizio di IPS è una sorta di doppione. Ma le opportunità non sono mai abbastanza e infatti, grazie al progetto, G. si ritrova a colloquio insieme agli altri partecipanti (una decina in totale) ed è l’unica a cogliere senza obiezioni il primo lavoro che le viene offerto.

Si tratta della pulizia delle stoviglie in una mensa. Un lavoro pesante, ripetitivo, svolto in un ambiente umido e caldo e che spesso costringe a sollevare carichi pesanti e svolgere tutto il lavoro nel giro di poco tempo. “Da un lavoro di concetto ho pensato che passare a qualcosa di manuale poteva darmi una energia nuova e svuotarmi la mente”. G. si approccia al nuovo lavoro con forza, motivazione, voglia di fare. Il contratto stipulato con l’agenzia interinale a settembre il marzo successivo diventa a tempo indeterminato. Passano due anni in cui G. sembra ritornare al passato. “Sono stata anche orgogliosa per i corsi di formazione che mi hanno fatto fare, per le responsabilità che mi hanno affidato. Staccavo dopo tre ore e mezza di lavoro, mi lasciavo il lavoro alle spalle e andavo in palestra”.

Luglio 2019: muore la madre di G. e lei subisce un colpo durissimo. “Nonostante tutto tengo botta. Vivo nella casa di mia madre con l’ex badante, una signora con la quale si era creato un rapporto familiare e che, a fronte della coabitazione, mi aiuta svolgendo le faccende di casa”. Ma nella vita di G. tutto è provvisorio. La casa di famiglia viene venduta e lei si trasferisce, insieme alla coinquilina, in un appartamento dove finisce per recludersi nella sua camera da letto. “Senza più i miei spazi, senza più le mie certezze. La mia vita era chiusa dentro a scatoloni sparsi in giro fra le abitazioni di parenti. Sentivo che cresceva in me qualcosa di profondamente disturbante”. Tutto è costellato di momenti di profondo dolore e sia al lavoro che in palestra le energie psicofisiche cominciano a mancare e tutto si risolve sempre più spesso in lunghe crisi di pianto. “Dopo la pausa del periodo di lockdown, a marzo 2020 riprendo il lavoro. Mi trovo da sola con poche persone al lavoro. Inizio ad avere attacchi d’ansia. Non ho coraggio di comunicare a nessuno il disagio, a parte la tutor dell’IPS che mi supporta psicologicamente. Sono reticente sul lavoro per mostrare di essere efficiente, per non deludere, per risultare totalmente autonoma”.

A gennaio del 2021 la direzione richiama al lavoro tutte le dipendenti. Torna anche la caporeparto che era in maternità e si riprende il posto di G. al lavaggio. “Vengo messa a fare altre cose e inizio a stare male, non riesco più a sentire le capacità produttive che avevo prima e di cui ero sicura. Mi metto da parte perché debole, insicura. Perché sento di non avere nessun potere”. La dottoressa Caterina Bruschi, del CSM Mazzacorati, le suggerisce di seguire le attività di cucina che alcune associazioni della Salute Mentale tengono presso la Casa di Tina. “Mi sentivo sola. Stare insieme a dei volontari molto gentili, carini, mi ha aiutato a passare delle giornate di serenità”. Per partecipare ai corsi che si tengono il giovedì riesce a ottenere il permesso dall’azienda grazie a una lettera della dottoressa Bruschi, che spiega le necessità di G.

Tutte in azienda si sono rese conto del suo stato di salute, dalle colleghe alla direzione. Una amica sindacalista le chiede se preferisce fare un turno diverso e occuparsi di altro. Dapprima viene inviata alla pulizia della gastronomia e della macelleria. Poi però, causa anche il ridimensionamento dei contratti con le aziende esterne, le viene chiesto di occuparsi, insieme ad altre colleghe, anche dei bagni e degli spogliatoi maschili e femminili. “Per me è stata la morte. Innanzitutto mi sono vergognata, mi sono sentita umiliata. Mi ha buttato giù. Le pulizie le facevo tirando via, ed è stato notato quasi subito”. G. viene vista dalle colleghe come una insopportabile nullafacente, una snob che tenta, con la scusa di una malattia immaginaria, di non svolgere un lavoro umile che altre fanno. “Con l’inizio dell’anno facevano battute sulla depressione, su come ci fossero in Ucraina persone che vivessero una condizione ben più grave, che se proprio non ce la facevo più a vivere buttandomi da un ponte non mi sarei sbagliata”.

Ora G. al lavoro si trascina e viene presa di mira in maniera sistematica. “Sapessi io cosa trovo la mattina nei bagni”, le rispondono le colleghe del turno precedente. Le riunioni improvvisate sul lavoro erano tutte monotematiche: G. lavora male e ci rallenta tutte. “A marzo del 2022 mi chiama la direttrice che mi dice che così non si può andare avanti perché è venuta a sapere che le colleghe non mi sopportavano più. Mi viene chiesto di prendermi le ferie ma io vado in malattia. La prego di licenziarmi per qualsiasi motivo le venga in mente”.

Ormai caduto il muro dell’omertà, della paura di rivelare il proprio male, G. non ha solamente più nulla da perdere ma inizia una vera e propria battaglia di dignità e rispetto sul luogo di lavoro. Prende contatti con i sindacati, fa finalmente richiesta dell’invalidità civile tramite la psichiatra dell’AUSL per accedere al collocamento mirato, continua a chiedere di essere licenziata. In aprile di quest’anno crolla nuovamente e viene ricoverata in un istituto di cura per un mese. “A maggio sono uscita e scopro che il ricovero non è stato calcolato come malattia. Sono sempre più sola in questa estate dal caldo infernale ma attendo con impazienza la visita del medico del lavoro per presentare tutti i documenti che ho raccolto e che testimoniano la mia malattia. Spero che in questa visita medica venga riconosciuta la mia incompatibilità con il lavoro e che comprendano il livello di stress a cui sottopongono le persone malate”. Un documento che si spera sarà decisivo è quello preparato dalla dottoressa Caterina Bruschi, ora direttrice del CSM di Villa Mazzacorati, in cui in modo dettagliato spiega all’azienda che lo stato di salute di G. è grave. Per il resto non possiamo che, ora che conosciamo la sua storia, fare quadrato attorno a G. e ai suoi diritti di persona disabile in un ambiente di lavoro pregiudizievole fino all’ostilità.

Una riflessione infine è d’obbligo: se il sistema di “Placement” degli utenti dei CSM nel mondo del lavoro sembra funzionare, forse altrettanto non si può dire di quello di “Support”, almeno leggendo la vicenda di G. Ma una cosa, non nuova, è certa: le aziende devono cominciare a impegnarsi, dalla dirigenza fino al personale tutto, a imparare a conoscere i disturbi mentali e creare spazi di lavoro per le persone diagnosticate che rispettino i loro limiti, le loro specificità, la loro dignità.



 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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