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“L'identità invisibile”. Alla ricerca di una rete efficiente per l'autismo

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

I libri sulle disabilità scritti dai familiari possono essere documenti pieni di speranza o una caduta verticale verso il dolore. Quello di Gianfranco Vitale, intitolato “L’identità Invisibile - Essere autistico, essere adulto” (Magi edizioni, 2019) appartiene alla seconda categoria, immergendoci in una tensione dolorosa nel partecipare a questo diario che, seppure rappresentando una minima parte della vita del figlio Gabriele, autistico adulto e grave, raccoglie tutti gli elementi drammatici della vicenda.

Foto identita invisibile

Papà Gianfranco, nelle sue ansie di caregiver pieno di affetto e tribolazioni, affronta il racconto con un forte senso critico verso le istituzioni ma sempre mantenendo un tono dolente, amareggiato, mai aggressivo. Gabriele, nel suo andamento “sinusoidale” delle manifestazioni, che vanno dalla disperazione alla violenza cieca, diventa un corpo sottoposto a mille prescrizioni farmacologiche, alle regole della comunità che lo ospita, con le sue soluzioni univoche per tutti i pazienti, con i contenimenti degli operatori, certamente vittime della rabbia fisica di Gabriele, e le soluzioni “magistrali”, quasi senza appello, di responsabili e dirigenti.

Gianfranco Vitale decide la via complessa di tenersi informato consultando la letteratura specialistica sulle ricerche più attuali. Comincia a porsi legittimamente delle domande sulle terapie, sulla somministrazione dei farmaci, di cui approfondisce composizione, funzionamento ed effetti collaterali, a chiedersi perché la medicina si muova per specializzazioni e non per coordinamento di discipline diverse. Ciò che rimarca più spesso è che manca la giusta attenzione verso quel lavoro di rete che deve coinvolgere tutti: medici, psicologi, operatori socio-sanitari e famiglie. Una rete piena di smagliature fatte di silenzi imbarazzati, sintesi promesse e puntualmente rinviate, accordi disattesi. E, traspare, è proprio questa sua combattività, questa sua legittima richiesta di avere voce all’interno di un gruppo che decide di suo figlio che, paradossalmente, crea maggiori fastidi agli altri.

Gianfranco persegue una strada ambiziosa: consapevole che le ricerche più recenti dimostrano una connessione fra disfunzioni organiche, neurologiche e psichiatriche, sottopone Gabriele a un complesso check-up medico fatto di analisi che rappresentino in modo plastico il suo stato di salute complessivo e chiede la formazione di un team di esperti delle varie discipline. La metodologia di ricerca ideata da questo gruppo di studio che riesce a coinvolgere la racconta lui stesso:
In una prospettiva multidisciplinare […] la problematica di Gabriele poteva collegarsi in un’area clinica di sovrapposizione tra la medicina generica e quella specialistica psichiatrica, neurologica e internistica.
[…] Centrale doveva essere l’analisi clinico funzionale del comportamento problema, affidata a una raccolta di dati osservazionali che ne facilitasse la comprensione. Si trattava di informazioni destinate, prevalentemente, a individuare eventuali disturbi organici, in grado di concorrere, con altri, a scatenare o mantenere iil comportamento disfunzionale.
In questo caso sarebbe stato importante individuare un referente medico internista, come già avveniva per Gabriele in ambito psichiatrico, che coordinasse la raccolta dati e integrasse gli accertamenti clinici necessari, ponendosi come interlocutore continuo con la comunità [la residenza dove Gabriele è un ospite molto “difficile”], in raccordo con il medico psichiatra.
La raccolta sistematica dei dati osservazionali sarebbe consistita in una procedura che prevedeva l’utilizzo di un format condiviso tra le varie figure professionali (medici, infermieri, educatori, operatori) e i familiari. Dovevano essere variabili da raccogliere, descrivere, interpretare, correlare tra loro e con la condizione autistica, attinenti alle condizioni fisiopatologiche, alla descrizione dei fattori sensoriali e ambientali, agli interventi farmacologici, educativi, ecc.
Ciò avrebbe consentito una più precisa ricostruzione della traiettoria del neurosviluppo, in un’ottica di prescrizione terapeutica condivisa tra le diverse voci della cura, facilitando, in una fase successiva, un’ipotesi descrittiva e interpretativa del disturbo con la possibilità di individuare indicatori di condizione di benessere e/o malessere”.

Come possiamo immaginare la proposta di confronto fra medici di discipline diverse, la messa in discussione dell’organizzazione già rodata all’interno della comunità di assistenza, la proposta proveniente da un “semplice” familiare viene accolta freddamente da operatori e psichiatri torinesi (dove si trova la comunità che ha in cura Gabriele) attraverso l’assenteismo alle riunioni dove partecipano medici che si spostano appositamente da Brescia a Torino per avviare la ricerca. Di nuovo la rete si smaglia e a passarvi attraverso sono le speranze.

Gianfranco continua nelle sempre più frequenti crisi di Gabriele a fare da supporto attivo portandolo in giro a visitare i luoghi attorno alla loro Torino e donandogli momenti di sollievo che Gabriele trova soprattutto nella bellezza dell’arte, del paesaggio, della natura. Solo il contatto solitario con ciò che, nel suo silenzio, è vivo porta Gabriele a dimenticare la rabbia, a sottrarlo agli effetti collaterali farmacologici. A sentirsi libero e in pace rispetto alla violenza che esprime nella comunità. “[…] la cultura fonda le sue radici nella credenza che i 'diversi' non possono vivere in un mondo normale e non rimane che relegarli in strutture diurne o residenziali di tipo assistenziale, dove l’obiettivo non è la maturazione e la crescita dell’individuo, ma la sorveglianza e il contenimento”.

Parole dure certamente frutto di un’esperienza personale causata dalla gravità della disabilità di Gabriele. Ma rimangono comunque un monito su ciò che non dovrebbe tornare a essere la cura della salute mentale.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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