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Ricoveri e TSO, le storie di chi ha partecipato al Progetto Benessere

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Laura Pasotti, redattrice di Sogni&Bisogni. Le testimonianze sono state raccolte da Marie-Françoise Delatour.

Sono stata ricoverata quattro volte al reparto di psichiatria di Fano. Non volevo mangiare, non volevo parlare, volevo solo morire. Mi hanno ricoverata anche a Bologna, quattro anni fa. La paura di farmi male, di fare male a qualcuno ce l'ho ancora. Adesso prendo le medicine, ho una piccola pensione, mio figlio e vado avanti”. A parlare è Anna, una delle partecipanti all'edizione 2021 del Progetto integrato e intensivo Benessere psicofisico, approvato dal Dipartimento di salute mentale di Bologna nell'ambito del programma Prisma.

Foto Testimonianze
Durante uno dei pomeriggi dedicati alla libera espressione dei partecipanti, il gruppo ha scelto di esprimere i propri vissuti relativi alle esperienze dolorose vissute durante i TSO, i soggiorni presso le residenze psichiatriche e i periodi di gravi crisi in casa. Per alcuni di loro, si trattava della prima volta che “osavano” parlarne davanti ad altri, perché la paura di guardare la propria disperazione o di sentirsi giudicati è ancora molto forte. Non ne avevano parlato né in famiglia, né con i propri terapeuti. Il gruppo ha chiesto di pubblicare le testimonianze (i nomi delle persone sono stati cambiati), perché i medici e i responsabili devono sapere che cosa succede e come si vive in questi luoghi”.

Arrivata in Italia una quindicina di anni fa, Anna ha lavorato come badante. Quello che guadagnava serviva per far studiare suo figlio, “ha fatto ingegneria energetica”, dice. E ora è lei a dipendere dal figlio. “Adesso mio figlio lavora e ha una fidanzata, anche lei ingegnere. Ma è stanco di dovermi sempre portare a fare visite o controlli, a volte si arrabbia, dice che non può stare sempre dietro a me”. I ricoveri, per quanto volontari, per Anna sono stati molto duri, lunghi anche un mese durante il quale lei poteva uscire solo ogni due o tre giorni: “Quando sei lì vedi sempre le stesse persone, per mangiare, per parlare, per fumare una sigaretta. Non è che non mi piacessero le persone o gli operatori, stavo male e non mi piaceva nessuno. A ripensarci mi vengono in mente solo le cose brutte, la voglia di ammazzare qualcuno. Farmaci no, non me ne davano tanti, quelli che prendevo mi facevano stare bene”.

Il clima di rispetto reciproco e di amicizia sviluppatosi tra i partecipanti e i volontari durante le dieci giornate del Progetto Benessere Psicofisico ha creato le condizioni per confidarsi e aprire il proprio cuore, e questi temi molto forti, inizialmente considerati un tabù, sono stati ripresi dal gruppo con una certa disinvoltura, perché si è visto che sono esperienze condivise da molti.

Per Alessandra tutto è cominciato con un attacco di panico mentre guidava in autostrada. Era il 2018. “Il giorno dopo ho chiamato il Centro di salute mentale Mazzacorati di Bologna ma il medico di guardia mi consigliò di rivolgermi a un privato. Allora sono tornata a casa, pensando che sarebbe passato. Invece, il disagio stava prendendo piede sempre di più”. Da quel momento, Alessandra ha smesso di uscire di casa, di alzarsi dal letto, di lavarsi, lei che era un po' fissata con l'igiene. “Mi sono annullata completamente. E anche se avevo il senso di colpa verso mio marito e i miei due figli, che erano ancora piccoli, non riuscivo a muovere un dito nei loro confronti”. Poi, una sera, Alessandra ha preso delle pasticche, “per farmi del male”, viene portata al pronto soccorso e poi all'SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura). Ci tornerà altre tre volte. “L'ho sempre trovato un posto inumano. Non c'è nessun rapporto con il paziente, non c'è né il medico nè assistenza psicologica e gli infermieri sono scostanti e maleducati. Il loro approccio può andare bene se sei ricoverato per un'appendicite, non per un problema di salute mentale. Sei lì, tra gente con patologie molto diverse, che lancia le sedie o i piatti e ti senti ancora più in crisi, vulnerabile”. Poi sono iniziati i ricoveri prima a Villa Baruzziana, quattro o cinque volte, e a Villa Azzurra (vicino a Riolo Terme) dove Alessandra è rimasta per 4 mesi. A Villa Baruzziana non mi sono mai trovata bene – dice – : è un posto in cui dispensano solo farmaci, e dove spesso ti cambiano la terapia assegnata dallo psichiatra di riferimento del Centro di salute mentale. È un posto dove non c'è nessuna assistenza e, per assurdo, il rapporto più umano che puoi avere è con le OSS. Sono stata varie volte anche nel reparto SPOI (Servizio psichiatrico ospedaliero intensivo), un posto dimenticato da Dio: quando sei lì dormi, ti alzi, se non lo fai ti svegliano loro, e basta. Almeno al piano superiore puoi fare amicizia con le altre pazienti e c'è una separazione tra uomini e donne”.

A Villa Azzurra, invece, Alessandra racconta di essersi trovata bene: c'erano tante attività, lo psicologo una o due volte la settimana, e dopo un po' di tempo le hanno dato il permesso di uscire per andare qualche ora in paese. “Ho sempre preso tanti farmaci e ne prendo molti anche adesso – racconta Alessandra, il cui ultimo ricovero risale al 2020 - Nel 2019 invece ero stata ricoverata perché avevo tentato il suicidio. Qualcuno ha chiamato i vigili del fuoco, non so chi. Hanno sfondato la porta e sono entrati. Io ero già in coma”. Dopo essere stata in terapia intensiva, Alessandra è stata spostata in reparto ma poi è peggiorata ed è stata rimandata all'SPDC: “Al risveglio non sapevo dove mi trovavo, non capivo. Poi c'è da dire, ed è una cosa molto intima, che i miei tentativi di suicidio sono sempre stati accompagnati da una incredibile sensazione di benessere, Forse questa è la cosa che fa più paura. Non ho i sensi di colpa che invece sento quando mi risveglio. In ospedale se hai tentato il suicidio sei considerata una che non vale nulla, usano un tono aggressivo, ti ripetono 'ma non pensi ai tuoi figli?' e tu non puoi fare niente, sei in balia degli eventi, perché stai male fisicamente e mentalmente”.

Per Alessandra servirebbe maggiore consapevolezza da parte di chi lavora nei reparti psichiatrici degli ospedali o con chi ha problemi mentali, “per far sì che le persone si sentano bene e non un peso. Se ho il mal di testa, non posso farmi venire l'ansia perché so che se lo dico all'infermiera lei sbufferà o mi farà aspettare”. Al Centro di salute mentale Alessandra ha fatto dei day hospital: si va alla mattina, ti fanno una flebo di farmaci (oltre a quelli che già prendi), ma non c'è uno psicologo con cui parlare: “Non posso essere una persona che ingoia farmaci dalla mattina alla sera per stare bene. E invece lì ti vedono solo come un paziente che deve ingurgitare medicine e se hai bisogno di una terapia fatta di empatia tra due persone, per tirare fuori quello che hai dentro, devi pagare”, aggiunge. Alessandra lo ha fatto per un po' di tempo, spendendo 140 euro ogni volta, ma poi ha smesso e si è rivolta al Mazzacorati, dove il servizio era gestito da tirocinanti. Con il Covid però è stato sospeso e ancora non si sa se ripartirà, “nel frattempo mi hanno aumentato i farmaci - dice Alessandra - Devo aggiungere però che nella realtà del Centro di salute mentale ho trovato un'infermiera di riferimento che è sempre presente quando ho bisogno e che mi è stata ed è tuttora di grande aiuto, e un'educatrice che mi ha seguito per l'attivazione dei tirocini e mi è stata molto vicina dal punto di vista umano".

Sara è a Bologna dal 2016, è arrivata dall'Iran per studiare e ha sempre abitato da sola. I suoi genitori venivano a trovarla spesso. Poi sono iniziate le difficoltà economiche, dovute - come racconta Sara - all'embargo degli Stati Uniti verso l'Iran. “Non sapevo come fare, dovevo pagare le tasse dell'università, c'era il permesso di soggiorno da rinnovare, e non volevo tornare in Iran. Ero stanca, stavo sempre chiusa in casa a studiare, sono stata malissimo, piangevo in continuazione – racconta – Allora ho chiamato il 118 e mi hanno portata all'SPDC”. Era il 2018. Dopo una settimana in TSO è stata trasferita a Villa Baruzziana, dove è rimasta un mese. “All'SPDC c'erano persone che urlavano, tiravano le sedie, saltavano, a Villa Baruzziana è andata meglio, le persone erano più tranquille ma mi davano molti farmaci a colazione, pranzo e cena – racconta Sara – Sono stati i medici di Villa Baruzziana a contattare i miei genitori in Iran per dire che avevo bisogno di loro e, grazie a quella lettera, l'Ambasciata ha permesso loro di uscire dal Paese e raggiungermi in Italia”. Da allora i genitori di Sara sono a Bologna, la aiutano, lei sta meglio, prende un solo farmaco e sta lavorando come rider.

Io non sono mai stata ricoverata. Ogni lunedì un'infermiera viene a casa, mi porta le medicine e parliamo. Qualche volta ho pensato al suicidio ma da quando l'infermiera del Centro di salute mentale mi aiuta e mi dice di non fare pensieri cattivi, sto meglio”. A parlare è Silvia a cui il Programma di Benessere psicofisico è stato segnalato dalla psichiatra che la segue al CSM Navile: “Dal 2008 al 2011 sono stata a Scalo, poi ho cambiato. In entrambi i centri mi sono trovata bene, anche con gli infermieri. Mi telefonano per Natale, se non esco”.

Non ho nessuna esperienza di TSO o ricoveri, ma ho avuto episodi di panico e di ansia – dice Maria – Sono iniziati nel 2008, mentre ero a casa a guardare la tv. Senza un motivo apparente ho iniziato a percepire questa sensazione di sudore, di tremore, una specie di male improvviso”. Maria è stata seguita prima dal CSM di San Giorgio di Piano e poi da quello di San Pietro in Casale, “mi trovo bene, ma mi manca il colloquio con la psicologa che avevo a San Giorgio. L'incontro con la psichiatra serve solo per i farmaci. Quella che c'era a San Giorgio veniva da Parma, ora mi hanno spiegato che sono in difficoltà e hanno solo delle tirocinanti”. Ora Maria sta meglio, prende solo un farmaco, ma nel 2021 ha perso il lavoro – in una litografica per l'abbigliamento – e adesso sta inviando curriculum e contattando le agenzie interinali per trovare un altro impiego. “Ho avuto una piccola ricaduta d'estate perché ho interrotto i farmaci, poi la dottoressa mi ha spiegato che la riduzione deve essere graduale”.

Luciano è stato male nel 1991: “Ho visto morire mia sorella di un virus che i medici non hanno saputo spiegare. Io le stavo vicino, le tenevo la mano, poi è andata in coma. In tre giorni è finita”. L'anno dopo si è ammalato il padre di Luciano, di un tumore ai reni, e lui faceva le notti in ospedale perché il suo lavoro di cassiere al Carrefour di Napoli gli consentiva di chiedere più permessi di quelli che potevano avere i fratelli. “Facevo le notti e ho cominciato a non dormire più. Era una forma di esaurimento nervoso. Non riuscivo più a lavorare alla cassa e ho dato le dimissioni. Lavoravo lì da vent'anni”, dice. L'esaurimento è diventato depressione, Luciano ha iniziato a prendere dei farmaci, è stato ricoverato e si è trovato malissimo. “Gli infermieri non ti trattano come una persona, hanno sempre una parolina per offenderti. Anche a me è venuta voglia di suicidarmi, con le pasticche o con una corda alla gola”. Una situazione che è andata avanti per un lungo periodo, poi nel 2005 Luciano perde anche la madre, “la notte in cui è morta c'ero io a vegliarla”, rimane solo e tenta il suicidio buttandosi dal secondo piano. Si frattura l'anca e il bacino e inizia a essere seguito dal Centro di salute mentale di Napoli. Viene ricoverato per cinque anni in una struttura intermedia residenziale (SIR), poi nel 2018 si trasferisce a Bologna grazie a un'amica che già ci abitava. “Ho accettato di venire a Bologna perché non mi andava più di stare in quella grande struttura piena di vecchietti – racconta Luciano - Da allora le cose sono migliorate, la dottoressa che mi segue al CSM di San Lazzaro mi ha inserito nel Progetto Benessere e faccio parte dell'associazione L'Arco”.

Io ho fatto sette ricoveri a Villa Baruzziana e ho avuto la fortuna di avere sempre in camera persone molto carine. L'unico problema è che quello è un posto dove ti danno solo medicine”, racconta Federica. “La prima volta mi sono chiusa in me stessa, non reagivo. Ricordo che un infermiere mi ha toccato il braccio e quel piccolo contatto fisico è stato uno stimolo a muovermi, ma il problema è che lì non c'è supporto psicologico. E poi con le attività che propongono, arteterapia o musicaterapia, io non mi ci trovo”, dice. All'Ottonello, invece, Federica si è trovata meglio: lì c'erano infermieri che ascoltavano chi era ricoverato e non li obbligavano a prendere i farmaci come invece accadeva a Villa Baruzziana.

Ho fatto diversi ricoveri, un po' a Villa ai Colli, dove mi sono trovata molto bene, un po' a Villa Baruzziana. Ai Colli sono rimasta due anni perché non avevo una casa in cui tornare. Lo psicologo mi veniva a trovare spesso e ho trovato delle amiche con cui condividevo il mio ideale religioso. Recitavamo il rosario, mi sentivo bene. Poi sono uscita e adesso tante cose non me le ricordo più”, dice Barbara. Anche lei ammette di non essersi trovata bene a Villa Baruzziana: “Mi davano dei farmaci per vedere se miglioravo. Ero da sola, non c'era lo psicologo, ma almeno c'erano la natura e la messa alla domenica”. Uscita da Villa Baruzziana, Barbara si trasferisce in Puglia dal fratello ma poi scappa e si fa ricoverare in ospedale. “Io non sapevo cosa fare, l'ho seguito, ma sono peggiorata. In quel periodo mi diceva che non poteva starmi dietro, che non ero gestibile. Adesso invece mi rispetta, forse mi vuole anche più bene. Veramente mi voleva bene anche prima, ma non era un dottore”. Pian piano Barbara è migliorata, ha conosciuto il CSM e ha riacquistato fiducia in se stessa, “i miei hanno potuto vedere questo cambiamento”. La fede ha aiutato Barbara a dare un senso alla sua vita. Uscita dalla Villa ai Colli, ha fatto un periodo di volontariato con don Novello Pederzini a San Mamolo ed è stata ospite da una parrocchiana. “È stato un momento felice perché don Novello sapeva valorizzare le persone, soprattutto quello che avevano avuto sfortuna. Poi sono andata dai Domenicani, ma non mi sono trovata bene, e da Padre Marella e poi, attraverso il CSM, sono entrata in un gruppo appartamento. Mi piaceva, c'era un'infermiera che diceva che voleva che noi stessimo bene. Una frase che mi ha colpito, ho pensato che forse ero nel posto giusto, dove mi potevano voler bene”. Adesso Barbara abita di fronte alla Casa di Tina, da sola: “Prendo le mie medicine e sto bene. La visita è una volta al mese ma è poco, ci vorrebbe una frequenza quindicinale perché queste malattie sono un po' così, vanno e vengono”.

Sentire il vissuto degli altri mi fa venire ansia perché sono molto empatica e mi metto nei loro panni. Quando vado in giro, indosso occhiali e cappello per non vedere e non sentire – racconta Giorgia – Lo yoga e la meditazione mi hanno aiutato a staccarmi da questa empatia, a vedere solo me stessa e la realtà in modo più tranquillo. Prima non l'ho detto, ma anche io ho tentato il suicidio, due volte. E quando l'ho fatto, come è stato detto prima, ho provato una sensazione bellissima. Non ho avuto sensi di colpa, sentimenti, non ho sentito niente. Era come se mi fossi resettata, come se fossi diventata anaffettiva. I segni del tentativo di suicidio li porto ancora. Spero che con il tempo la sofferenza psicologica sparisca”.

Per me tutto è cominciato con il dimenticare le cose, non riconoscevo più le chiavi di casa, non ricordavo le strade, i cartelli, al lavoro ero bravissima ma non sapevo più come farlo. Poi all'improvviso non ricordavo più niente, ho iniziato a perdere la memoria. In quel periodo lavoravo tanto e mi stavo separando da mio marito. Un fallimento e non riuscire a fare niente è stato pesante”, dice Paola. “Non avevo fiducia in me stessa e nonostante facessi tante cose, non riuscivo ad apprezzarmi. Ora dopo tante cure, riesco a parlarne, anche se a fatica. Ricordare fa male, anche adesso. Allora mi metto a cucinare per non pensare. Quando sto male invece devo stare ferma, mi chiudo in casa, non devo accendere i fornelli perché rischio di lasciarli accesi”.

Oggi mia figlia ha 47 anni, quando si è ammalata ne aveva 15. Anoressia mentale. È alta un metro e 73 centimetri ed è arrivata a pesare 36 chili – racconta Antonella - Abbiamo passato momenti terribili, la cosa più brutta è stato non sapere che cosa aveva. Qualcuno mi disse che mia figlia non è che non avesse fame, ma aveva fame d'amore. Per me è stato pesante sentirmi dire che io e mio marito non eravamo capaci di darle amore”. Adesso la situazione è migliorata, anche se “queste malattie restano per sempre e anche tutto il contesto. Non c'è una società che riesca ad aiutarli, a farli migliorare. Rimarremo sempre emarginati, noi e loro”.

Il tema dei farmaci ritorna in tutte le storie, come quella di Alessandra. “So che dovrò prenderli per tutta la vita perché da una cosa come quella che ho io, non si guarisce. Dovrò portarmi dietro tutto questo perché quello che è successo viene da un trauma di almeno trent'anni fa. A cui poi si è aggiunta la separazione da mio marito”. La difficoltà di accettare la malattia del partner o del coniuge accomuna molte delle esperienze vissute dalle persone che hanno frequentato il Percorso Benessere Psicofisico, come è accaduto a Alessandra. “Mio marito mi ha lasciata mentre ero ricoverata, in uno stato in cui non capivo quello che mi stava succedendo – dice – Ho fatto un accordo di separazione senza un avvocato e ho accettato tutte le condizioni proposte da quello di mio marito. Nella sentenza di separazione c'è scritto che soffro di una depressione maggiore borderline bipolare, autolesionista: mi ha fatto più male vedere il mio stato di salute riportato in ogni pagina di quel documento che non lasciargli la casa, le macchine e accettare che i miei figli stiano con lui. Spero che in fase di divorzio sarò un po' più lucida”. Adesso i figli di Alessandra sono più grandi e lei li vede nei fine settimana perché sono loro a chiedere di stare con la madre.

Io ho avuto mio padre schizofrenico, avevamo un medico privato ed eravamo noi figli a curarlo e non il contrario. Mi è mancata la figura paterna. Sono insicura, anche se ho lavorato molto su me stessa e adesso sono a un livello ottimale. Ho sempre avuto paura degli animali, è come se avessi trasferito su di loro la paura che avevo di mio padre. Lui era imprevedibile, negava di essere malato e a volte lo tenevamo legato al letto, non ci ha mai picchiato ma io e mio fratello siamo stati per molto tempo in collegio”, racconta Elisa. Per anni ha anche aiutato persone con problematiche di salute mentale, “dicevano che ero portata vista l'esperienza con mio padre”, e ha cresciuto un figlio, che oggi ha 25 anni. “Poi ho distrutto tutto quello che ho fatto e quando sto male non provo affetto nemmeno per mio figlio. Eppure quando c'è stato il terremoto il primo pensiero è stato quello di proteggere lui – continua Elisa - E lui non riesce a capire che io ho un problema, non accetta che non ricordi le cose. Gli dico che non deve mancarmi di rispetto, ci provo, non lo rimprovero, non urlo come facevo prima ma non è facile”. Il marito di Elisa ha sofferto per 15 anni di ansia e per due anni è andato a stare dalla madre. “In quel periodo ha smesso con i farmaci e si è ripreso. Poi mi sono ammalata io e lui è tornato per aiutarmi. Le cose vanno abbastanza bene ma quando io sto male lui urla e dice cose pesanti. Ancora non sa se rimanere o meno in questa situazione”.

Dei miei figli sono molto contenta – dice Alessandra – Quello che mi è dispiaciuto è che quando ho avuto delle difficoltà, io che non ho famiglia, ho perso anche quella di mio marito. Mio suocero mi diceva che avevo rovinato suo figlio e i bambini. È vero che per i miei mal di testa mi sono fatta ricoverare diverse volte ma non l'ho mai raccontato a un bambino di 9 anni. Oggi, che di anni ne ha 14, quando lo vedo o lo sento al telefono mi chiede come sto e come mi può aiutare”.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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